Vent’anni senza Regina

28 Novembre 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
I Queen vent’anni dopo, l’estasi dell’oro (anzi del platino) per il piacere di molti e lo sfregio di altri. Amati e odiati come pochissimi nella storia mercantile del rock: nel bene e nel male, insostituibili e internazionalpopolari. I peccati della Regina? L’appartenere alla (de) generazione dopo, quella che occupò il vuoto lasciato dai Grandi, e l’adesione spontanea alla cosiddetta cattiva scuola dell’heavy metal. Quindi stroncati a prescindere, un destino che toccò pure a loro precursori di alto livello: Black Sabbath, Grand Funk Railroad, Uriah Heep. Tutti, all’epoca, evirati di dignità artistica dalla kritika ufficiale. I Queen, qualche anno dopo, si resero protagonisti di un crimine entusiasmante: rivelarono alla massa che il re era nudo, cioè che il rock era diventato, in quanto industria (leggera), intrattenimento puro. Come Frank Sinatra, il burlesque e la danza del ventre. Il cinismo di Mercury e soci coniugò al massimo livello tutti i linguaggi del pop. Un catalogo fantasmagorico di possibilità sonore applicate: l’hard, un po’ di prog sinfonico, pennellate di folk, jazz, vaudeville, funky, disco, country, eccetera. Il tutto siglato da una disciplina esecutiva militaresca, ossessionata dal perfezionismo formale in studio. L’ossimoro totale rispetto ai colleghi dei Settanta, magari più geniali e ispirati ma talvolta caotici e approssimativi.
Ecco allora l’ammirazione di un Frank Zappa: i Queen ordigno canzonettaro pre-zorniano, padrini di un’estetica art-rock che ha germinato anche in ambiti impensabili. Ferocemente popular ma con un’ambiguità, soprattutto sessuale (con quel nome…), che a volte li rendeva poco rassicuranti. In fondo i Germs, l’apice del nichilismo punk, si incontrarono per la prima volta a un loro concerto… E pensare alle coverizzazioni, veri e propri omaggi, degli industriali Laibach e Nine Inch Nails dovrebbe chiarire meglio l’assioma.
Potremmo individuare tre fasi distinte nella carriera della Regina.
Gli esordi, che coniugarono il metallo urlante con una vena poppista ed esperimenti très chic. Memorabile la vernice, ovvero i Queen senza l’esoscheletro produttivo. Poi il bis che (loro malgrado) avrebbe ispirato, nel decennio seguente, le flatulenze epic-metal; la differenza, fondamentale, era riposta nell’ironia contagiosa dei nostri, contrapposta al ciarpame (serio!) dei metallari alla Manowar. “Sheer heart attack”, proteiforme, schizofrenico, fu il prologo ideale per i fasti del magniloquente “A night at the opera” e della sua copia carbone “A day at the races”.
“News of the world”, uscito in pieno ciclone wave, chiuse il cerchio allontanando la band dalle trame sofisticate di Roy Thomas Baker. Ellepì grezzo, di una varietà assurda, è il disco che meglio li rappresenta. Gli anthem alla “We will rock you” esemplificarono un concetto caro alla ciurma: il voler essere radicati nella cultura popolare implicava pure la creazione del coro da stadio o di una sigla pubblicitaria. Semileggendaria un’intervista di quel periodo, una delle poche rilasciate da Mercury ai media inglesi: il (non) dialogo tra una giornalista e una rockstar. Le canzoni come fazzoletti di carta, utili a soffiarsi il naso prima di essere buttate via… Una dichiarazione, a suo modo, di un’onestà raggelante. Spartitraffico di un’epoca conclusa, “Live Killers” introdusse l’era americana; il trionfo commerciale di “The game” e il tonfo di “Hot space”. Che fu però l’ultimo tentativo di reinventarsi.
Da “The works” in poi, 1984, si sarebbero limitati a proporre ad libitum la loro formula magica con sempre più trucchi e mestiere e, di conseguenza, meno ispirazione.
Gestirono il tesoro, una fortuna economica clamorosa, trasformandosi in un’icona, un marchio, dalle stupefacenti possibilità concertistiche. Se nei ruggenti Seventies erano un formidabile ensamble live, negli Ottanta divennero una creatura mitologica da stadio. Una macchina bellica in spazi aperti. La migliore, l’unica che performasse alla perfezione di fronte a folle oceaniche, adoranti. Forse perchè la Regina Ltd non riusciva più a sopportarsi all’interno delle mura (claustrofobiche) di uno studio di registrazione. Quindi l’ego dei quattro armonizzava meglio negli ambiti infiniti di Knebworth Park, se non altro perchè riusciva difficile (con centomila testimoni sotto il palco) riverberare le tensioni, inevitabili, di un combo miliardario.
La nebbia artificiale, il ghiaccio secco e la caciara del wattaggio mettevano a nudo la composizione molecolare.
Un compromesso bizzarro tra semplicità e complessità. La prima incarnata dalla base ritmica, sicura e senza voli pindarici. Roger Taylor, Bonzo Bonham dei poveri, era essenziale per l’apporto (strepitoso) alle celeberrime linee vocali del gruppo. John Deacon, il bassista, portava alla causa la quadra definitiva del suono. I due solisti erano invece esagerati, carichi e aggressivi, diretti alla giugulare del pubblico: la chitarra sovradimensionata di Brian May, un’orchestra a sei corde; la voce di Freddie Mercury, uno scherzo della natura, l’Yma Sumac del rock. Furono le corde vocali al tungsteno di quest’ultimo, quattro ottave di estensione e una coloratura impressionante, e la sua presenza scenica a consentirne l’immortalità stilistica.
Farroukh Bulsara, di origine parsi, era una maschera umanissima, globale; conciliò le sue inquietudini, il dolore sottotraccia del freak, con le pose esagerate, le clownerie e la grandeur.
Sacerdote macho gay (sic) di un rito che, al meglio, non poteva che destare l’ammirazione della moltitudine. Perfetto nel ruolo di Fregoli rock and roll, per Re Pavone il palco dove esibirsi era il mondo intero. Esplorarono nuove frontiere, non solo il videoclip, mercati vergini o quasi: il Sudamerica, la cortina di ferro (l’Ungheria), anche (ahivoi) il Sudafrica in pieno apartheid. Britannici nella carne e nello spirito almeno quanto erano americani i Kiss e le loro paccottaglie, misero assieme la sintesi impossibile: il kitsch di Cecil DeMille, le citazioni dei Fratelli Marx e l’ipercapitalismo. Furono una bella colonna sonora della globalizzazione occidentale, ingenua e allegra. E prolungarono la propria adolescenza senza vergogna, giocando scherzi di ogni tipo. Uno, le casalinghe disperate di “I want to break free”, costò loro l’abiura dal supermercato yankee, troppo omofobo per gradire quella scenetta.
La burla più gustosa Freddie la perpetrò postumo e fu il tributo in suo onore a Londra nel 1992:
on stage passò lo showbiz che contava e, chi più chi meno, dimostrarono impietosamente quanto fosse arduo giostrare sulle timbriche di Mercury. Troppo complesse finanche per cantanti dalla fama insospettabile, che quella sera fecero la figura di dilettanti allo sbaraglio. Uno spasso. Quando se ne andò, il 24 Novembre 1991, aveva già preparato ogni dettaglio; consentì, per onorare i genitori, una cerimonia funebre di culto zoroastriano. Il fuoco per Zarathustra rappresenta l’energia simbolica: istruì che durante la cremazione, mentre le fiamme lo bruciavano, fossero trasmesse “You’ve got a friend” cantata da Aretha Franklin e l’aria verdiana “D’amor sull’ali rosee”, interpretata dall’amica Monserrat Caballè. Il solito esibizionista, eccentrico, aveva forse già previsto tutto tanti anni prima…
Great King Rat died today / Born on twenty-first of May / Died syphilis forty-four on his birthday / Every second word he swore / Yes he was the son of a whore / Always wanted by the law…”
(da “Great King Rat”, 1973)

Simone Basso (24 novembre 2011)

Share this article