Il baseball di Tom Brady

7 Febbraio 2022 di Roberto Gotta

Tom Brady si è ritirato dal football giocato, a 44 anni e mezzo e dopo 22 stagioni nella NFL, 20 nei New England Patriots e le ultime 2 nei Tampa Bay Buccaneers. Un fuoriclasse che a suo tempo è stato tutt’altro che un predestinato, come dimostrano tanti episodi della sua carriera, anche di quella a livello di college. Quando ebbe una mezza idea di dedicarsi a tempo pieno al baseball, l’altro sport in cui da adolescente primeggiava. In questa domenica senza football NFL proponiamo quindi un brano del nostro libro Il mondo di Tom Brady – Football e vita di un’icona americana, pubblicato da Indiscreto nel 2019.

Era arrivato a Michigan nelle prime settimane di estate del 1995, per acclimatarsi al nuovo ambiente, nel quale non era rimasto più nessuno di sua conoscenza, dopo la partenza di Harris e le dimissioni di Moeller e Cartwright. Nemmeno sul fronte del baseball aveva potuto trovare sfogo. Poco dopo Moeller se n’era andato infatti anche Bill Freehan, l’ex catcher campione MLB con i Detroit Tigers che della squadra di baseball di Michigan era stato allenatore dal 1989. Freehan aveva apprezzato molto quello che aveva visto e saputo di Brady, e lo avrebbe accolto, da marzo a giugno, nella sua squadra, ma non ebbe neanche il tempo di vederlo all’opera. E oltretutto Carr aveva idee opposte rispetto a Moeller: chi giocava a football non doveva fare altri sport, divieto assoluto.

Fu lì che la carriera di Brady prese la deviazione decisiva verso la palla ovale, nonostante buonissime premesse nel baseball. In giugno, infatti, i Montreal Expos – ora diventati Washington Nationals – avevano scelto Brady al diciottesimo giro del draft della MLB, numero 507 in totale. Parecchio in alto, se si pensa che i turni di scelta erano addirittura 87: voleva dire che gli Expos ritenevano Tommy un giocatore in grado un giorno di giocare in Major League, dopo il necessario periodo di crescita in minor league, ma sapevano anche che la sua netta preferenza era per il football. Lo aveva ribadito Tom senior, che ne aveva parlato più volte per impedire ai club professionistici di sprecare una scelta alta. Quella degli Expos fu dunque una decisione precauzionale, e il fatto che l’avessero fatta al diciottesimo turno, e non più avanti, voleva comunque dire che temevano di essere preceduti da altre squadre.

Curiosamente, in quel draft MLB vennero scelti giocatori legati, più avanti, alla storia di Brady: con il numero 8 assoluto Todd Helton, che avrebbe avuto una grande carriera con i Colorado Rockies ma in quel momento era… solo l’ex quarterback che alla University of Tennessee aveva perso il posto, per infortunio, a vantaggio di un certo Peyton Manning; al diciannovesimo giro Lawyer Milloy, poi compagno di squadra di Brady ai Patriots; e al ventottesimo giro Michael Bishop, quarterback di Kansas State che finì anch’egli ai Pats, nel 1999.

Cosa avrebbe fatto realmente, Tommy, nel baseball? Nessuno può saperlo, ma c’era certezza sulle sue doti, e i primi ad averla erano proprio gli Expos: braccio potente (il catcher deve poter sparare palline anche da accosciato o inginocchiato, dunque senza poter far forza con le gambe), coraggio, giro di mazza (la capacità di colpire la pallina) potente e soprattutto mancino, aspetto bizzarro per un catcher e ancor di più per un giocatore che tirava la pallina di destro, così come lancia il pallone da football. Non per nulla i catcher destri di tiro ma mancini di mazza non sono stati molti, nella storia del baseball professionistico, anche se alcuni di loro sono diventati famosi, ultimo tra essi Brian McCann, campione 2017 con gli Houston Astros.

Nella primavera del 1995 Brady e un collega della Serra erano stati invitati dai Seattle Mariners a fare un provino in vista del draft, e nell’occasione il club decise di far vivere ai ragazzi presenti un’esperienza memorabile. Il tutto – giusto dirlo – in una situazione in cui non sarebbe stato necessario farlo: non sei un reclutatore di college che deve convincere un giocatore a sceglierti, sei solo una struttura professionistica che vuole visionare giocatori per il futuro, senza alcuna garanzia che qualcuno di loro possa un giorno tornarti utile. Brady e il collega avevano potuto cambiarsi nella clubhouse ovvero lo spogliatoio usato dai giocatori ‘veri’ e avevano indossato emozionati, a turno, la casacca di Ken Griffey jr, uno dei campioni più memorabili degli ultimi 40 anni di baseball. Avevano poi svolto esercizi di tiro, difesa e battuta e Tom aveva pure sparato un fuoricampo. Del resto, nei due anni nel baseball con la Serra ne aveva avuti otto, di fuoricampo, 11 doppi (battute lunghe che permettono al giocatore di arrivare fino alla seconda base) e 44 punti battuti a casa, ovvero punti generati dalle sue battute che permettevano a compagni già sulle basi di arrivare a casa base e segnare. Durante una partita di playoff, tra l’altro, Brady sparò un fuoricampo che atterrò sul cruscotto del pullman della squadra, spaventando l’autista che in attesa di riportare a casa i giocatori stava facendo un pisolino.

Montreal dunque sapeva di avere a disposizione un potenziale campione, anche dal punto di vista della maturità: secondo un articolo del sito MMQB, il coach della Serra, Pete Jensen, lasciava che il catcher suggerisse al lanciatore i lanci da effettuare, invece di ordinarli dal dugout (la panchina, nel baseball). Per poter svolgere il compito nella maniera migliore, il catcher deve avere una conoscenza chiara e profonda del suo compagno di squadra e dei battitori avversari. È quella che Brady aveva: una memoria nitida delle loro caratteristiche, derivata da partite al parco o da confronti in leghe estive. Molti catcher non per nulla sono diventati allenatori di Major League perché dalla loro posizione abbracciano con lo sguardo tutto il resto del campo e devono conoscere tutto quello che accade. Un po’ come i quarterback, volendo. Brady era sicurissimo delle proprie conoscenze, raccontava un ex compagno di squadra in quell’articolo: capitava che un lanciatore declinasse il suo suggerimento sul lancio da effettuare salvo vederselo riproporre immediatamente, perché secondo Tom quello, e solo quello, poteva mettere in difficoltà il battitore.

Tutto materiale che aveva spinto gli Expos ad esporsi: l’offerta contrattuale a Brady sarebbe stata al livello economico di una seconda o terza scelta, non di una diciottesima. Pochi giorni dopo il draft, casualmente, Montreal era andata in trasferta a San Francisco e per l’occasione il club aveva invitato Tom, lo aveva fatto parlare con il general manager Kevin Malone, gli aveva fatto trovare una casacca con il nome e gli aveva permesso di fare la cosiddetta batting practice, cioé una sessione di battute su lanci benevoli: altre attenzioni che normalmente non si dedicano a un giocatore scelto al diciottesimo giro.

Brady era stato anche affidato a un esterno degli Expos, F.P. Santangelo, che aveva il compito di fargli capire quanto fosse bello giocare in quella squadra, ma il piano era crollato in maniera esilarante. La mamma di Santangelo, infatti, era cresciuta nel Michigan e aveva fatto il college a Michigan, ed F.P. era esaltatissimo al pensiero di poter parlare con un futuro quarterback dei gialloblu. Addirittura, portatolo nella clubhouse, lo aveva presentato ai compagni di squadra non come loro potenziale collega ma proprio come qb dei Wolverines, e quando John Hughes, principale osservatore degli Expos, arrivò nello spogliatoio gli fu chiaro che la situazione era sfuggita di mano: «Gli dicevamo ‘Perché mai dovresti giocare alcuni anni in minor league a 800 dollari al mese quando puoi essere il quarterback a Michigan? E con questo fisico e aspetto vedrai che a Michigan ti potrai divertire anche fuori dal campo’» ricordò Santangelo, anche se Brady timidamente replicava «Veramente non sono il titolare, ho davanti sei quarterback, non ho idea di come andrà a finire».

Estratto del libro Il mondo di Tom Brady – Football e vita di un’icona americana, di Roberto Gotta (Indiscreto, 2019)

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