Tom Brady e i Patriots

18 Marzo 2020 di Roberto Gotta

Tom Brady lascia i New England Patriots dopo 20 anni, 6 Super Bowl vinti e mille altre cose. Non lascia il football giocato, però, nonostante i 42 anni e mezzo di età. Quasi certamente firmerà con i Tampa Bay Buccaneers, ma questo è il futuro. In questo momento ricordiamo, con qualche riga del nostro ‘Il mondo di Tom Brady – Football e vita di un’icona americana‘, il modo in cui Brady è arrivato ai Patriots, per creare uno dei cicli di maggior successo nella storia dello sport.

Venne il giorno del draft, e Brady era a San Mateo, nella casetta di Portola Drive. Non era considerato tra i giocatori più forti e dunque non era stato invitato nella cosiddetta Green Room, la saletta in cui i candidati al primo giro aspettano di sentire il proprio nome e di salire sul palco a ricevere le congratulazioni del commissioner, che in quell’anno era ancora Paul Tagliabue, l’avvocato ex giocatore di basket di Georgetown University.

Era con i genitori, le sorelle e alcuni amici, ma non aveva voluto troppa gente intorno, perché non aveva idea di quello che sarebbe potuto accadere. E infatti non accadde nulla: il primo giorno di draft passò senza che il suo nome venisse annunciato, e del resto in quel caso avrebbe comunque ricevuto la classica telefonata di preavviso, anche se di pochi minuti.

I primi due giocatori scelti li conosceva bene, erano due ex difensori di Penn State: l’uomo di linea Courtney Brown e il linebacker LaVar Arrington, andati rispettivamente a Cleveland e Washington. Altri nomi familiari furono quello di Burress (numero otto, a Pittsburgh), quello di Alexander, quelli degli ex compagni di squadra Ian Gold (linebacker chiamato da Denver al numero 40) e, ma molto dopo, Shea (Cleveland, terzo giro, numero 110). Al termine del secondo giro Brady era rimasto a lungo sdraiato sul letto della sua camera, a guardare il soffitto e a chiedersi quale sarebbe stato il suo futuro, dato che le aspettative erano di una chiamata dal terzo in poi, e questo però voleva dire doverci dormire sopra, dato che il draft era spalmato su due giorni.

Il secondo giorno, con i turni dal quarto in giù, era iniziato alle otto del mattino ora di San Mateo, ma non era accaduto nulla fino all’ora di pranzo e la situazione stava diventando pesante: «Eravamo davvero sconvolti» disse poi Tom senior. Alla fine del quinto giro, prese una mazza di baseball ed uscì di casa, non riuscendo più a sopportare la tensione e l’attesa. Lo ha ricordato, interrompendosi anche per l’emozione, sempre in The Brady 6, in cui ha anche ribadito l’affetto e l’appoggio dei genitori in un weekend stressante come quello.

La chiamata arrivò finalmente al numero 199, preceduta dal colpo di telefono dei Patriots che gli comunicavano la decisione. Era la fine di un vero incubo e Brady, senza volerlo, anzi maledicendo quell’attesa, aveva trovato un’altra maniera di sentirsi sottovalutato, un’altra fonte di propulsione verso l’alto. L’elenco dei giocatori dimostratisi inferiori a lui ma scelti prima di lui sarebbe assurdamente lungo e fuori luogo, un senno di poi troppo facile da mettere in piazza. Brady è stato un errore di tanti, compresi i Patriots che per cinque volte preferirono altri giocatori, e chi ha letto fin qui sa che di certezze ce n’erano poche, su di lui, per via della carriera a Michigan che pareva non decollare mai. È però chiaro che fa impressione soprattutto vedere quali fossero i quarterback ritenuti più affidabili, più ricchi di talento e di potenzialità: furono sei. (…)

(…) Per i telespettatori, che seguivano il draft sulla ESPN, non ci fu nemmeno la possibilità di avere la notizia in diretta: quando era il turno dei Patriots infatti c’era un intermezzo pubblicitario, e solo al rientro in studio il commentatore annunciò che nel frattempo era stato fatto quel nome. Che per New England era il settimo chiamato: bravi loro a prendere Brady, ma nei due giorni di scelta gli avevano preferito Adrian Klemm, Greg Randall e Jeff Marriott, tre uomini di linea di attacco, il running back J.R. Redmond, Dave Stachelski, un tight end che nella NFL non ha poi mai giocato, e il safety Antwan Harris, numero 187.

Ad effettuare tutte queste scelte erano stati il nuovo coach Bill Belichick e Scott Pioli, un dirigente 35enne che Belichick conosceva da metà anni Ottanta, quando Pioli, all’epoca studente (e buon giocatore) alla Central Connecticut State University, si faceva ogni giorno un’ora e mezza di auto per andare a seguire gli allenamenti dei New York Giants. Belichick, che di quei Giants era defensive coordinator, gli aveva addirittura messo a disposizione una stanza, per evitargli le tre ore di viaggio nei giorni in cui a CCSU non c’era lezione.

Di Stachelski, tra l’altro, Pioli ha poi tenuto per anni una foto sulla scrivania, accanto a quella di Brady: era un modo per ricordarsi quanto fosse andato vicino a sbagliare completamente il draft, quanti rischi avesse corso ad aspettare la scelta numero 199 per fare il nome di Brady. E quanta fortuna, comunque, ci sia in ogni draft: «Se qualcuno dello staff vi dicesse che aveva capito quel che Tom sarebbe diventato, sappiate che sta mentendo. Nessuno poteva averne idea».

 L’ultima parola peraltro era sempre quella di Belichick, che aveva ricevuto da Kraft amplissimi poteri e che espresse poi alla ESPN le ragioni delle sue perplessità iniziali: «L’aspetto preoccupante era che a Michigan sembrava volessero continuamente sostituirlo, sembrava quasi che non lo volessero. C’era qualcosa che non sapevamo?». Non c’era nulla, in realtà, se non quell’insieme di elementi che erano stati illustrati nel rapporto scouting.

C’era il bisogno di New England di irrobustire la linea di attacco, anche se Klemm, Randall e Marriott hanno finito col giocare un totale di sole 77 partite nella NFL. C’era qualcosa di obiettivamente inspiegabile, magari la stessa difficoltà di analisi che aveva portato pochi anni prima Kurt Warner a non essere nemmeno scelto nel draft, prima di vincere un Super Bowl, arrivare ad un altro e finire, nel 2017, nella Hall of Fame. Una miscela di scarsa lungimiranza, difficoltà di valutazione, paura, diffidenza (verso i quarterback lenti della Big Ten Conference, che costituiscono quasi una categoria sociale a parte) e chissà cos’altro.

  E comunque a Brady i Patriots erano arrivati soprattutto grazie a quella telefonata di Grier e al lavoro di analisi fatto da Dick Rebhein, allenatore dei quarterback nominato da Belichick pochi mesi prima, dopo un’esperienza ai Jets al seguito di Bill Parcells. Rebhein era andato ad Ann Arbor e aveva parlato con Carr e Brady, apprezzando molto quello che aveva sentito. Aveva ascoltato e riferito: è vero, il posto da titolare di Tommy era stato in dubbio fino a metà dell’ultima stagione, ma gran parte dei compagni di squadra aveva tifato per lui e così buona parte dello staff tecnico; da titolare aveva vinto 20 partite perdendone solo cinque; si era trovato quasi sempre in situazioni difficili da gestire (Carr anni dopo avrebbe detto «E in quelle situazioni l’ho messo io») e ne era uscito con coraggio, intelligenza, maturità, superando le avversità senza farsene dominare, una volta sconfitto lo sconforto iniziale.

Un aspetto poco noto della vicenda è che Belichick, pochi giorni dopo il draft, licenziò Grier e Dave Uyrus, principale osservatore dei Patriots. Accade spesso che un nuovo coach – Belichick era stato nominato già nell’anno nuovo – non faccia in tempo a preparare il draft con i propri uomini di fiducia e si affidi a quelli che già ci sono, liberandosene però subito dopo perché vuole dare una propria impronta al dipartimento, come del resto accadde proprio con l’arrivo di Pioli.

Erano stati giorni particolari per tutti, e lo stesso arrivo di Belichick aveva fatto notizia: il suo capo Bill Parcells, infatti, si era dimesso da coach dei New York Jets lunedì 4 gennaio, giorno dopo la fine della regular season, e Belichick era stato nominato suo successore. Forse preoccupato per la situazione del club, data la recente scomparsa del proprietario Leon Hess, o forse subito contattato dai Patriots dove aveva già allenato sotto Parcells, Bill il 5 gennaio, poco prima della conferenza stampa di presentazione, scrisse su un fazzoletto di carta ‘I resign as HC of the NYJ’ (‘Mi dimetto da head coach dei New York Jets’, gli acronimi erano dovuti al fatto che il fazzoletto era piccolo) e spiegò poi ai giornalisti quello che provava. New England lo prese al volo ma dovette pagare una specie di riscatto ai Jets in forma di prima scelta del draft del 2000.

Ignaro di quanto fosse accaduto a gennaio, finito il draft Brady, sistemate le sue cose, prese il volo prenotato dai Pats e andò a Boston per la firma del contratto, pronto a mettersi a studiare. Poco dopo il suo arrivo a Foxborough incontrò Kraft, si presentò, gli diede la mano e disse, serio, «Mister Kraft, io sono la miglior decisione che il suo club abbia mai preso». Che ci credesse o meno, lo disse comunque, così come al suo arrivo a Michigan aveva detto, tra sé e sé, «Io sono meglio di tutti quelli che ci sono qui» (…)

Estratto del libro ‘Il mondo di Tom Brady – Football e vita di un’icona americana’, scritto da Roberto Gotta per Indiscreto. In vendita in formato elettronico per Amazon Kindle a 9,99 euro e in versione cartacea (204 pagine) al prezzo di copertina di 19,90 euro (in realtà molti rivenditori lo propongono intorno ai 17 euro) presso la Libreria Internazionale Hoepli (sia in negozio a Milano sia online con spedizioni in tutta Italia), Amazon Prime, le librerie di catena come Mondadori e Feltrinelli e tutte quelle indipendenti che ne facciano richiesta. Librerie e rivenditori professionali possono richiederlo al nostro distributore in esclusiva, Distribook.

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