Puerto fortuna

26 Luglio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Finisce il Tour, un pomeriggio di domenica, con Parigi vestita a festa e la saudade che ci assale: è l’ennesimo anno che se ne va rincorrendo le ruote veloci ma silenziose; cercando risposte mentre si vaga con la mente e lo sguardo su quel curioso spettacolo di mosconi bradicardici. Come se il volare tra le Alpi e i Pirenei ci consentisse l’accesso a una dimensione differente del pensiero, un non luogo con ritmi dilatati nel tempo e un respiro molto più umano, scrutando un orizzonte che vada oltre il tetto del vicino di casa.

Vedendo il torero sul podio dei Campi Elisi abbiamo avuto un deja vu nostalgico: era il 2003 e lo ricordiamo benissimo in quel di Karpacz alla primissima vittoria da professionista. In quella edizione settembrina del Giro di Polonia, appena ventenne, vinse la cronoscalata che concluse la gara a tappe. L’Alberto, nel giallo canarino della Once, sorprese tutti. L’arrivo, sconosciuto agli occidentali, fu il banco di prova dei campioni dell’est anche nella leggendaria Corsa della Pace. Fu proprio salendo la rampa al dieci per cento di pendenza che il grande Sergei Soukhouroutchenkov, anno di grazia orwelliano 1984, si aggiudicò la sua seconda Friedensfahrt: quella salita non mente mai.
Il Contador potremmo definirlo l’hombre giusto al posto giusto. Fin dall’esordio nelle categorie giovanili fu un predestinato, provvisto di fortuna al di là di una logica divina. Accolto e cresciuto amorevolmente nella scuderia del sulfureo Saiz, scampò a un aneurisma celebrale quasi fatale per la carriera e all’esplosione nucleare dell’Operacion Puerto: quest’ultima fu Hiroshima e Nagasaki per il gruppo di Manolo, ai tempi (2006) sponsorizzato Liberty Seguros, ma si trasformerà nell’Area 51 dell’intero sport spagnolo. Protetta con cura maniacale, nei file più misteriosi ed inconfessabili, da giustificare (dopo un’estate di trionfi iberici) qualsiasi battuta al vetriolo; sempre che il ginecologo Fuentes non fosse consulente medico del Barca, sezione calcio e pallacanestro, per occuparsi delle inebrianti vagine di fidanzate e mogli dei giocatori di quel club…
Eppure il Pistolero, annunciato da un paio di vittorie in terra elvetica, divenne grande alla Festa (..) di Luglio 2007: approfittò dei vuoti di sceneggiatura all’antidoping di Pollo Rasmussen e delle sfortune tattiche di Paperino Evans per indossare la prima maillot jaune parigina. Converrete che il madrileno sembri nato con la camicia stirata se, su cinque grandi Giri impalmati, tre hanno un margine di vantaggio lillipuzziano: ventitre secondi il giallo d’esordio, quaranta la Vuelta 2008 e trentanove l’ultima edizione della tripletta francese, quella del salto di catena di Schleckino sul Balès. Aggiungeremmo alla lista anche il Giro di due anni fa, che arrivò all’epilogo milanese contro il tempo con uno scarto record (tre secondi tra il torero e Riccò..).
Però il fortunello la sua dote se la merita. Essendo il ciclismo la terra perfetta dei paragoni, perchè vive soprattutto di memoria, il Contatour ci ricorda un puzzle di atleti ammirati nel passato e nel presente. La contemporaneità ce lo indica gemello spaiato (classe di ferro 1982), nelle fibre muscolari affusolate, di un Kenenisa Bekele. Il fuorisella ossessivo pare prossimo alla falcata progressiva, velenosa, del fenomenale padrone del mezzofondo mondiale. L’incapacità di farsi odiare dalla concorrenza, la lettura tattica negli attimi più tempestosi dei duelli (il bluff salendo verso Avoriaz è stato il momento clou del Tour..) lo rimanda al connazionale più illustre, quel Miguel Indurain che incenerì le speranze di Bugno e Chiappucci nei Novanta. Se AC ha la stilettata che le gambe da ostacolista del Faraone navarro non esibivano, la cilindrata in cavalli scaricata sulla strada dal pentacampeon di Pamplona non sembra più replicabile da altro essere umano. E’ comunque, l’Albertour stipendiato dai kazaki, un buon ritorno ad una realtà meno gibsoniana e cyberpunk. Distante vivaddio dalla programmazione sparagnina di robot alla Armstrong, tanto che ci auguriamo di verificarlo al più presto nelle classiche delle Ardenne e in qualche mondiale dal profilo altimetrico cattivo. Riuscissimo a colmare anche questa lacuna, avremmo (ri) percorso il tratto più difficile dell’arduo cammino verso la santità (e la sanità mentale..) dell’ambiente.
Rimarrà poi da avvisare la televisione di stato delle differenze odierne rispetto ai tempi delle imprese epocali. Raccontare magari che certi numeri, esteticamente impareggiabili, erano consentiti da un abuso farmacologico degno degli eroi di Hunter Thompson. E’ per questo che dedichiamo l’epilogo a un vecchio fusto come Jens Voigt, che nella cavalcata verso Pau (nella rete degli ultimi) ha assaggiato l’asfalto amaro dell’Aubisque. Una botta tremenda e la bici spezzata, con le ammiraglie della Saxo Bank ormai lontane; il tedesco, malgrado le ferite, ha chiesto alla vettura scopa un mezzo per proseguire verso il traguardo. Essendo provvisti di una specialissima per juniores (sic), il veterano ha pedalato per venti chilometri su una bicicletta per bambini o quasi. Il ricongiungersi con una vettura della casa, oltre a un rosario di improperi verso il mestiere tremendo, gli ha consentito un approccio meno difficoltoso al gruppetto dei velocisti sopravvissuti. Ci vuole una passione infinita per permettersi certi slanci a trentanove anni: Jens lo spilungone, senza pronunciare una parola, ci ha mostrato la magìa di un rito altrimenti inspiegabile ma bellissimo.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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