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Bagaglio a mano

L’indipendenza del Peterhead

Paolo Sacchi 04/04/2017

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Sulle tribune vuote del parlamento scozzese un gruppo di allievi di un istituto artistico si sta esercitando. La lezione prevede una libera interpretazione dell’aula della Camera, il cuore dell’edificio. Con il passare dei minuti sui fogli prendono forma le linee della struttura. Il complesso, inaugurato nel 2004, riflette la creatività di Enric Miralles, architetto catalano che lo ha disegnato tra il decostruttivismo e il postmoderno. Altrettanto originale la collocazione, di certo non casuale: siamo di fronte al Holyrood Palace, la residenza della regina, punto terminale del Miglio Reale, la strada più affascinante della città vecchia di Edimburgo. Con le loro matite i ragazzi sembrano colpiti soprattutto dal tetto del padiglione semicircolare, che presenta una serie di travi di quercia agganciate al livello soffitto da un sistema di giunti in acciaio. Più pragmaticamente, un inserviente fa presente ad una coppia di turisti che quella là, in fondo, è la sedia di quercia e acero su cui si siede il Primo Ministro, Nicola Sturgeon. Sa bene che da lì, qualche ora dopo, sarà annunciato l’esito di una votazione comunque storica: se il parlamento scozzese deciderà di tornare alla carica verso Westminister con la richiesta formale di un nuovo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito. Un referendum che, ancor più del 2014, dividerà gli scozzesi. I contrari accusano il gabinetto di governo di populismo nazionalista, ovvero non aver un progetto e di non essere in grado di rispondere a semplici domande su quel che avverrà “dopo”.

Vista da Peterhead, cittadina sulla punta estrema della costa nord-orientale, Edimburgo sembra lontana forse di più di quanto dicano i chilometri sulla carta geografica. Mentre nella capitale si discute di Brexit e indipendenza tra scuole d’inglese per stranieri e i palazzi georgiani intorno a Princess Street, a nord del Forth Bridge si bada al sodo e la teoria diventa pratica tra i moli del porto e le piattaforme al largo. Pesca, petrolio, gas: cosa accadrà eventualmente “dopo” è la domanda che molti si porgono. Per il resto, tutto sommato la distanza tra le colline del nord e la pianura nel mezzo tra la capitale e Glasgow si è ridotta nel corso degli anni e non solo per un miglioramento costante delle vie di comunicazione. Anche nel calcio, se vogliamo. Ad eccezione di Aberdeen, fino al 1994 le compagini delle Highlands disputavano un campionato a sé, estraneo alla lega professionistica, per vari motivi, tra i quali logistica, meteo e ovviamente “money”. Caduto il veto e ampliati i confini, da quando le prime due squadre highlanders sono state ammesse, hanno dimostrato di non aver nulla di meno delle loro controparti delle Lowlands. L’Inverness Caledonian Thistle – che in realtà è una sorta di “franchigia” creata ad hoc amalgamando due storici club cittadini, con buona pace della tradizione e dei romantici – è riuscito a scalare la piramide della Football League arrivando in Premier in soli dieci anni. Nel 2012 è stata inaspettatamente raggiunta ai vertici dal Ross County della minuscola Dingwall, mentre nelle serie inferiori militano, dal 2001, Elgin City e, appunto, Peterhead.

“Vedi lì, la tribuna? L’ho dipinta tutta io, da solo”. Jock è uno dei factotum al Balmoor, il piccolo stadio dei Blue Toon, nome in dialetto degli abitanti del posto che deriva dai capi di color blu indossati in passato dai pescatori. “Ed è già tanto aver messo a posto la struttura. È che qui non ci sono tanti soldi da spendere. Tutto il denaro ce lo mette il club. Giocare nella lega è costoso: già solo le trasferte sono un salasso”. Per quanto l’ascesa del Ross County venga enfatizzata dai media, per il resto la realtà non è tutta rosa e fiori. Anzi: da quando, tre anni fa, alla vincente del campionato delle Highlands – che resta un torneo semipro – è stata data la possibilità di venir promossa nella quarta divisione dei tornei professionistici via playoff, alcuni club hanno iniziato a riflettere se fosse il caso di provarci oppure rinunciare alla chance. Come nel caso, nel 2015, dei Brora Rangers: ad un passo dalla promozione, hanno finito per perdere, rimontati, nella finalissima contro il Montrose. Il punto è, come ci ha raccontato un dirigente locale, che oltre all’aspetto economico, la maggior parte delle formazioni delle Highlands è composta da giovani del posto che studiano o lavorano con l’aggiunta di qualche professionista a fine carriera che ha scelto di tornare a giocare nel proprio paese d’origine per la comodità di essere vicino alla famiglia. E l’ultima cosa che vorrebbe è tornare a trascorrere i fine settimana in viaggio verso sud.

In questo senso Inverness CT e – a sorpresa – Ross County sono due mosche bianche. Con medie di pubblico che oscillano intorno alle cinquecento unità, a Elgin e Peterhead diventa improbabile pensare ad altro che alla sopravvivenza. Tranne che nel 2013, quando i Rangers in campionato e il Celtic, in coppa, hanno riempito l’impianto fino alla capienza, a Balmoor e altrove le partite sono seguite da un pubblico di intimi e affezionati. Quasi devoti, vista la passione con cui seguono la squadra: si mettono in coda per un hamburger al baretto all’interno dello stadio, comprano puntualmente la sciarpa, il biglietto della lotteria e il programma della partita – che il Peterhead, intuibile per quali motivi, da quest’anno pubblica mensilmente anziché, come da tradizione, ad ogni gara interna. Le attività collaterali, intese come raccolta fondi – come le serate a tema con i tifosi – servono a raccogliere quel denaro decisivo per tirare avanti. L’unico vero stimolo oggi è il legame tra il club e il territorio, in un calcio professionistico che anche in Scozia e pure nelle Highlands almeno sul terreno di gioco sta perdendo i calciatori come punto di riferimento. “Un tempo i tifosi li conoscevano di persona perché vivevano in quella città e militavano per anni nel club. Ora, anche a basso livello, si fatica a individuare chi è in campo”, ci ha raccontato Alistair, che per nove anni è stato giacchetta nera nella SFL. “Mancano la personalità: il carisma fa la differenza, soprattutto a basso livello, per creare uno stimolo in più stimolo per seguire la squadra locale”. Più che il talento. “Per paradosso, più che i Souness, Miller, Sturrock o Dalglish, mancano soprattutto personaggi alla Chic Charnley. Da solo era capace di attirare pubblico per una partita di seconda divisione tra Clydebank e Partick Thistle”.

Terminata l’epoca dei fenomeni degli anni Settanta e Ottanta, da Italia ’90 è iniziata una parabola discendente che ha visto la nazionale scozzese scivolare nel ranking FIFA: per quanto possa valere – ora è 67esima – essere tra Benin ed Emirati Arabi non è certamente un indicatore di salute. Sarà che l’accezione del beautiful game da queste parti è intatta oggi come ieri con partite in modalità fast and furious dal primo al novantesimo minuto, è chiaro che, oltre alla passione, la molla dell’appartenenza alla comunità resta l’unica chiave per sopravvivere ai piani al di sotto le stelle della Premier, in Scozia come in Italia. Quando a Balmoor, nel prepartita della gara contro lo Stranraer, entra in campo la mascotte del Peterhead, gli spalti sono semivuoti. Mentre le squadre si riscaldano, l’unico rumore è prodotto dalla voce dell’altoparlante. “Sammy the Scurry” – la mascotte dalla fisionomia di un gabbiano, presenza comune da queste parti – passeggia su e giù sul prato verde e sembra guardarsi attorno sconsolato alla ricerca di bambini. “Un paio di mesi fa, contro l’Alloa, su un rilancio, il loro portiere ha colpito un gabbiano che volava sullo stadio. È stato incredibile”, ci racconta un tifoso con il cappellino bianco-blu della squadra, mentre tira un vento che ripulisce completamente il cielo. Lì per lì potrebbe apparire come una sorta di metafora dello state dell’arte del calcio scozzese, invece no: a pochi minuti dall’inizio finalmente si vedono a bordo campo anche dei bambini, che esulteranno per il gol del 2-2 dei loro beniamini strappato in pieno recupero.

A Italia ’90, al calcio d’inizio di Svezia-Scozia, che seguiva una clamorosa sconfitta contro il Costa Rica nella prima giornata, ascoltammo il radiocronista di Radio Clyde Paul Cooney esclamare convinto: “the chance is still there”. Nella fattispecie aveva ragione: Mo Johnston e soci vinsero a sorpresa sui nordici. Poi persero con il Brasile nel match decisivo, ma almeno uscirono a testa alta come consuetudine nelle presenze mondiali dei britannici. Nonostante tutto, “the chance is still there” anche per i piccoli club scozzesi, almeno finché si vedranno bambini allo stadio. Per la Scozia intesa come Paese indipendente, almeno in apparenza, pure.

Paolo Sacchi, da Peterhead

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