La sensazione di Woodstock

2 Gennaio 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
La sommossa musicale e culturale di Sly and the Family Stone, il gruppo funk-rock-soul che seppellì gli anni Sessanta riuscendo nell’impresa di contestare il sistema senza diventare una caricatura del maledettismo. E senza nemmeno bisogno della morte del leader…

“We gotta live together!”. Era l’anno di grazia 1969 e la nazione era ai loro piedi. “Stand!” fu l’apice orgoglioso, irresistibile, di Sly and the Family Stone: il compendio di una sommossa musicale contagiosa, pacifica ma non troppo. L’idea di un combo che rivoltasse gli stilemi del pop-rock venne a un sognatore afroamericano. Sylvester Stewart, texano trasferitosi in California, nacque prima come deejay; poi, in una storia di chiaroveggenza e talento visionario, cominciò ad inseguire la sua utopia (im) possibile. La realizzò accogliendo, strada facendo, tutto il mondo colorato che conobbe: impartì una lezione (multi) culturale all’America, con il sorriso e la naturalezza dei predestinati. Nella comune entrò un universo diverso: negli anni sessanta lo showbiz non prevedeva ruoli al di fuori di quelli canterini a una donna, invece Sly mise sul palco la splendida Cynthia Robinson (trombettista) a dialogare con il sax di Jerry Martini.

Presero la forma canzone, la sporcarono nel fango del blues, lavandola nel jazz e sposando il soul col rock.
Freddie Stone, il fratellino, portò la chitarra singhiozzante del Padrino James Brown (nel dna e nel sangue del progetto) a confrontarsi con lo stile percussivo tribale dell’ispanico Greg Errico. Anche Rosie, sorella dei due Stewart, si infatuò del percorso artistico e introiettò il gospel nel carnevale lisergico. Last but not least, la formula magica si sublimò grazie all’incontro di Sly con il suo alter ego: Larry Graham, l’uomo che reinventò il basso elettrico. Abolirono l’idea di razza e lo fecero, in diretta nazionale, in un paese traumatizzato dal Vietnam e dalle rivolte nei ghetti e nelle università. Il melting pot artistico fu la conseguenza istintiva di quel crogiuolo di anime, che si ritrovarono insieme a creare qualcosa che andò oltre.

“Il suono del gruppo era caratterizzato da una libertà incredibile. Era complesso, perchè la libertà è complessa; folle e anarchica, come la brama di libertà…”
(Greil Marcus)


“Stand!” era un inno, così pure la celebrazione rock di “I wanna take you higher”. “Everyday people” pop a ventiquattro carati con la vernice della tecnica slapping e “Sex Machine” una jam selvaggia, gioiosa e catartica.
“Somebody’s watching you” rappresentò uno sguardo paranoico al futuro, della band e di quel momento storico: fu il ponte gettato verso “Thank you (Falettin me be mice elf agin)” e “There’s a riot goin’ on”. Il primo, un singolo, seguì un altro 45 giri (“Hot fun in the summertime”): furono, in quasi due anni, le uniche testimonianze discografiche di una band di successo che disattese le regole più classiche del mercato. Smisero di battere il ferro malgrado fosse bollente… Eppure “Thank you” divenne un mostro, l’archetipo del funky moderno, una celebrazione martellante della fisicità del suono di Family Stone.  In prima fila un groove rivoluzionario, opera di Larry Graham; il bassista inventò e perfezionò il popping, uno stile che utilizzava il pollice per percuotere le corde: scoprì questa possibilità agli albori della carriera, casualmente, per compensare l’assenza del batterista. Con Larry il basso elettrico divenne protagonista melodico, struttura portante della costruzione sonora.

“Al primo piano c’è un negozio che tratta articoli religiosi. Sopra questo un negozio di armi; in cima, un’azienda pubblicitaria che opera nel settore detersivi. Se la storia dell’Occidente fosse un edificio a 3 piani al centro di Manhattan negli anni Venti, assomiglierebbe a questo piccolo esemplare architettonico.” (Ishmael Reed).

Furono la sensazione di Woodstock, la band che celebrò al meglio quei giorni di euforia (stonatura) collettiva. Condivisero la scena con Hendrix che andò invece incontro a un procedimento parossistico: l’industria, per continuare a venderlo ai bianchi, cancellò dal documentario e dal disco ufficiale ciò che si svolse realmente on stage. Tagliarono il contributo dei tamburi africani di Juma Sultan e Jerry Velez, la chitarra ritmica (molto poco rock) di Larry Lee; rimase il Jimi classico, quello che (per fortuna loro) sarebbe morto tredici mesi dopo. In verità l’uomo di “Purple haze” era in rotta con l’establishment che lo elesse Dio del Rock: avrebbe voluto uccidere i riti consumati troppe volte, lo stereotipo del chitarrista incendiario, e finirla con il circo a tre piste.

Il primo fu il profeta, James Brown, che interruppe la sua carriera mainstream con la pubblicazione di “Say it loud (I’m black and proud)” e Sly Stone, a ruota di Hendrix, intuì l’arrivo della tempesta. Fino a quel momento si era districato benissimo, sfruttando il vento liberal che soffiava impetuoso: capì che con il nuovo decennio le cose si sarebbero complicate maledettamente. Land Of The Free era un ritornello suggestivo, ma non c’era bisogno di essere Wilhelm Reich per comprendere che l’ispirazione massima del sistema era il dottor Benway. Nei quartieri “giusti” l’eroina si vendeva come le caramelle e la violenza era diventata il metalinguaggio della socialità americana: un esperimento di successo, edificato sull’olocausto di un popolo e la deportazione di un altro. Alla disillusione politica del periodo si sommarono le liti di Sly con gli altri del combo, la presenza ingombrante delle Black Panthers e le pressioni della casa discografica, la Epic. Sylvester cominciò un flirt devastante con la cocaina e si alienò progressivamente dal resto del mondo.

“Un ritratto elegante, perfetto, di una disintegrazione sociale e personale.”
(Andrew Weiner)


1971, le stagioni del caos. Per omaggiare la negritudine assunse come nuovi manager vecchi amici, Bubba Hanks e J. B. Brown, e si circondò di due guardie del corpo inquietanti: J. R. Valtrano e Eddie Chin Elliott, gangster di professione…
Par di vederlo, al Plant di Sausalito, in una reclusione dorata e decadente: lo studio che prevedeva, tra un microfono e l’altro, un letto… Inseparabile da una custodia di violino, con all’interno chili di roba purissima, praticamente Tony Montana alla fine del viaggio. Errico lasciò l’astronave quasi subito, gli altri suonarono separati uno dall’altro, contravvenendo allo spirito originale del progetto: li avrebbe, piano piano, esautorati tutti dal processo creativo. Chiamò a sostituirli Bobby Womack, Ike Turner, Billy Preston; ma proseguì in uno sforzo solitario, sovraincidendo dozzine di volte alcuni passaggi. L’overdubbing regalò all’opera un carattere cupissimo per un artista di black music; l’aspetto più significativo riguardò però il cantato che, affiancato e sommerso dagli effetti usati nel missaggio, rese di difficile comprensione le liriche. Non fu un caso, perchè la genialità del disco cancellò il significato delle stesse: le canzoni dipinsero affreschi che oltraggiarono le parole…

Il titolo dell’album fu una risposta provocatoria a un altro grandissimo, il Marvin Gaye di “What’s going on?”. La copertina fotografò lo sguardo disincantato del protagonista: la bandiera degli States fu alterata, con i soli al posto delle stelle e il nero che sostituì il blu. Una dichiarazione di intenti. La modernità impeccabile di “There’s a riot goin’ on” dipese anche dal procedimento di registrazione: alcuni brani esibirono, invece di un batterista in carne e ossa, una drum machine. Il suo utilizzo scurì ulteriormente la materia sonora, conferendo maggiore ossessione al “pantano” cinico dell’album. Undici pezzi inscindibili, organismi di un cor
po solo
:
il ritmo corruttore di “Luv n’ haight”, “Just like a baby”, la qualità quasi raga dell’immobile “Poet”, “Family affair” (un megaclassico) e il rito voodoo di “Africa talks to you / The asphalt jungle”. “Brave & strong”, “(You caught me) smilin'” e “Time”, sensazionali nel loro torpore tossico; le dissonanze minuziose della folle “Spaced cow boy” e “Running away”, una meraviglia di accenti funk inseriti in una melodia ancestrale, lunare. L’epilogo, la corrosiva “Thank you for talkin’ to me Africa”, disossò il brano originale fino alle estreme conseguenze: una danza funebre, macabra, che parve annunciare la morte (beffarda) della speranza. Sly Stone seppellì i Sessanta; edificò un castello di sabbia elegantissimo, un comodo sepolcro imbiancato (…).

Il vinile, nerissimo, sparse ulteriore confusione sul personaggio; che comunque vinse alla stragrande la scommessa, andando contro gli stereotipi stilistici che lui stesso aveva creato.
Fu il trionfo prima di una dissoluzione inevitabile: nei Settanta avrebbe consegnato ai posteri altri lavori interessanti (soprattutto il sinuoso “Fresh”) ma via via sempre meno qualitativi, impegnatissimo in un’autodistruzione che l’avrebbe trasformato in una parodia desolante. Il testimone era già stato consegnato a una nuova (de) generazione, capeggiata dai Funkadelic di George Clinton, il Frank Zappa afroamericano.

La Rivolta di Sly Stone rappresentò un unicum nel panorama musicale del tempo: Miles Davis, imbeccato dalla compagna Betty (fanatica dei Family Stone), abbracciò le tematiche crossover dell’artista di Denton
; lo fecero anche la maggiorparte dei divi della scena jazz-rock, che mutuarono parecchie soluzioni ritmiche e armoniche da quella serie di ellepì seminali. Vent’anni dopo, anche l’hip hop pagò tributi onerosi al folletto di “Dance to the music”. L’antico sodale di Sylvester, il Reverendo Larry, creò i Graham Central Station e continuò a predicare il funk alle masse: almeno due dischi (“Release yourself” e “Now do u wanta dance”) furono memorabili e non possiamo che arrenderci di fronte all’orgasmo sonico della stupefacente “Earthquake”. 

Sly and the Family Stone sono stati evirati dai libri di storia del pop; generarono un filone sterminato (uno solo?) e ancora oggi sembrano il punto di riferimento privilegiato dei pochi (Tv On The Radio, Janelle Monàe) che ricercano l’originalità oltre che l’argent.
Ma furono la quintessenza del meticciato, soprattutto musicale, e l’essere stati inetichettabili fu un peccato mortale: troppo neri per l’epica comoda di Beatles e Stones, maledettamente atipici e complicati per le comunità dei projects.

“…I vostri musicisti stanno morendo i vostri romanzieri sono in esilio per aver detto la verità i vostri poeti impegneranno i loro cappotti per 10 dollari la vostra gente parla del movimento del Nuovo Negro ma non sa parlare di più di 2 scrittori o di un solo pittore o quando parlano di Scott Joplin l’Apostolo del Ragtime, vedo la vergogna, nei loro occhi. Guarda, Nathan, la nostra nazione non ha tenuto conto delle profezie dei suoi artisti e l’ha pagata cara.” (Ishmael Reed)

Simone Basso 
(in esclusiva per Indiscreto)

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