La Mala, banditi a Milano: quando si stava peggio

24 Maggio 2022 di Stefano Olivari

La Mala – Banditi a Milano, documentario in 5 agili puntate appena finito di vedere su Sky, non propone scoop ma un racconto non ideologico degli anni Settanta e dei primi Ottanta attraverso la storia della delinquenza comune a Milano e dei suoi personaggi più famosi: Francis Turatello, Angelo Epaminonda e ovviamente Renato Vallanzasca che dei tre è quello che ha ispirato più cattiva letteratura, oltre ad essere l’unico vivente e quindi collaborante all’opera di Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, scritta con Salvatore Garzillo.

Un’opera che si smarca dal circuito della nostalgia, alternando le testimonianze dei pochi superstiti alle cronache dell’epoca. E per noi bambini anni Settanta rivedere con gli occhi di oggi i titoli splatter della Notte e del Corriere d’Informazione, quotidiani del pomeriggio letti dai nostri genitori, è stato illuminante. Perché gli anni Settanta e i primi Ottanta a Milano e nelle città italiane oltre una certa dimensione sono stati anni violentissimi, anche escludendo la violenza politica. Anni in cui la delinquenza di strada non era poi troppo diversa dal crimine organizzato, prima che mafia, ‘ndrangheta, eccetera, prendessero una dimensione finanziaria usando altri per la manovalanza.

Rapine, regolamenti di conti in stile Chicago e un numero impossibile da quantificare di sequestri di persona: perché erano molti di più quelli tenuti segreti o soltanto minacciati, per ottenere un riscatto per così dire preventivo. L’alternarsi di punti di vista nel racconto (il capo della Mobile Achille Serra, i magistrati Nobili, Turone e Davigo, i giornalisti Gay e Marinella Rossi, quella che più di tutti smitizza l’epoca), con le interviste ai pochi superstiti della banda Vallanzasca (lui stesso, Stefanini e Monopoli), è molto efficace e dà l’idea di come la percezione sia tutto: una periferia di oggi è, con tutti i suoi problemi, molto più sicura di una degli anni Settanta ed ogni indicatore di microcriminalità lo dimostra.

Fra le tante cose che ci hanno colpito ne indichiamo qualcuna in ordine sparso, oltre al titolo che richiama il famoso film di Lizzani con un Tomas Milian pre-Monnezza. Lo slang ai suoi tempi giovanilistico usato da Vallanzasca, il fatto che Lello Liguori sia ancora vivo, la lucidità di Stefanini, il livello finanziario dei sequestrati (spesso soltanto commercianti di media taglia), il mistero mai chiarito dei mandanti dell’omicidio di Turatello (si va da Vallanzasca alle Brigate Rosse, passando per Cutolo e chissà chi altro), la facilità dei rapporti fra boss in carceri anche a 500 chilometri di distanza senza web o smartphone, le evasioni incredibili (su tutte quella di Vallanzasca dall’oblò del traghetto per la Sardegna, nel 1987), la mitizzazione dei delinquenti da parte dei ragazzi di buona famiglia (chi oggi si esalta per certi rapper è ugualmente idiota), la furbizia di Epaminonda, l’offerta che il padre di Emanuela Trapani fece a Fraizzoli per l’Inter (non ce la ricordavamo), la poca percentuale di vita che i protagonisti hanno trascorso in libertà e quindi i pochi mesi sufficienti per costruire tutta una narrazione. Insomma, negli anni Settanta si viveva peggio di oggi, anche se avevamo la vita davanti. È chiaro che vorremmo tornare lì, ma certo non per Vallanzasca.

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