Tennis
Il tennis è tornato uno sport per ricchi
Stefano Olivari 08/05/2025

Con un occhio abbiamo appena finito di guardare la sconfitta di Arnaldi contro Bautista Agut in due set, rendendo vana la nostra strategia di bancare su Betfair il vincitore del primo set quando pensiamo che a vincere sarà l’avversario. E con l’altro occhio abbiamo letto sia dell’Antitrust che ha richiamato la federtennis italiana a una maggiore trasparenza nella vendita dei biglietti sia della proporzione dell’aumento dei prezzi agli Internazionali d’Italia, non rispetto alla preistoria ma all’anno scorso: più 13% facendo una media per i vari ordini di posti. Inutile elencare tutti i prezzi, li trovate sul sito. Basti sapere che il minimo di listino, senza bagarini, per assistere alla finale maschile è di 338 euro, a cui aggiungere il criticato 10% di prevendita e un’altra piccola furbata.
Per venire subito al punto: il tennis in Italia è tornato ad essere uno sport per ricchi? Proprio adesso che l’effetto Sinner produce ascolti televisivi di tipo calcistico? Effetto Sinner che vale anche senza Sinner, come abbiamo constatato di persona l’anno scorso: impossibile ormai passare da un campo minore all’altro, meglio mantenere la posizione faticosamente conquistata, ed impossibile muoversi nei vialetti interni del Foro Italico anche in giorni morti. Quanto alle code per bar, ristorante e bagni, anche lì si era al limite della sopportazione umana. Insomma, i problemi di uno sport di successo, problemi sconosciuti ai tempi di Panatta e a maggior ragione in quelli depressi degli anni Ottanta e primi Novanta.
La risposta va secondo noi divisa in due. Per quanto riguarda la pratica il tennis è nell’Italia del 2025 uno sport per ricchi, o per poveri con sponsor, molto più di quanto fosse negli anni Sessanta quando i più bravi dopo una limitata attività locale alla fine delle scuole medie o entravano in orbita federale (così fu per un tredicenne Panatta, certo di famiglia non ricca), o erano ricchi e insistevano, o smettevano. Oggi il tennis di base, un normale corso in una scuola affiliata FIT, costa in proporzione più che ai nostri tempi (noi fummo iscritti nel 1976 al Tennis Corvetto, tre mesi dopo la vittoria di Panatta al Roland Garros…) e del resto basta osservare il ceto sociale di chi ci va, con qualche eccezione sembrerebbe di essere tornati agli anni Cinquanta se non fosse per le canottiere da tamarri. Tutto questo senza dare un valore al tempo che genitori-accompagnatori buttano via, anche a livello pre-agonistico.
Altra cosa sono gli spettatori, quelli trascinati da Sinner come da Tomba come da Valentino Rossi: lì i prezzi dei biglietti seguono le logiche dei grandi eventi, quelli a cui si vuole essere, ed è inutile fare demagogia su temi diversi dall’acqua o dall’elettricità. Se una Champions League vista dal terzo anello costa 100 euro e comunque di partite di Champions ce ne sono tante, ci sta che un evento raro in un impianto con un settimo dei posti costi se va bene 338 euro, visto che in entrambi i casi stiamo parlando di teorici sold out. Su tutto c’è poi la considerazione che lo spettatore ideale, dal punto di vista degli organizzatori di qualsiasi cosa, sia il tifoso-turista, non il tifoso-tifoso. Perchè il turista paga di più per avere di meno: non è necessariamente stupido, ma il suo tempo è limitato. Binaghi è arrivato addirittura a teorizzare che questo sia un meccanismo da Robin Hood, fottere (nostra traduzione) soldi agli occasionali per finanziare il tennis di base, ma questi corsi di tennis per poveri ancora non li abbiamo visti.
stefano@indiscreto.net