Il linguaggio di Paolo Rossi

11 Dicembre 2020 di Indiscreto

La morte di Paolo Rossi ci ha spinto a guardare per la centesima volta Italia-Brasile 1982, ieri sera su Rai 2, trasmessa dopo il non memorabile film-documentario Il campione è un sognatore che non si arrende mai. Ma anche ad ascoltare, nel 90% dei casi a riascoltare, tante interviste del Rossi calciatore ed ex calciatore. Di cui ci hanno colpito sempre le stesse due cose. La prima è la grande proprietà di linguaggio del campione, non solo in senso formale ma anche come capacità di analisi: sembrava di ascoltare un giornalista che stesse parlando di fatti capitati ad altri, dal Mondiale al calcioscommesse.

La seconda è la serenità con cui Rossi anche nei due anni di stop, dalla primavera del 1980 a quella del 1982, parlava di quei due minuti che gli avevano rovinato la carriera, quelli in cui aveva salutato gli amici di Della Martira, abbandonando il tavolo della tombola (particolare di culto, perché anche all’epoca non è che i calciatori passassero le serate giocando a tombola). Il cattivo pensiero è che Rossi sapesse di essere colpevole marcio, essendo a conoscenza che quell’Avellino-Perugia sarebbe stato combinato e i suoi due gol finti, e che almeno con sé stesso l’avesse ammesso, trovando una specie di pace necessaria per ripartire.

Quello buono, che stranamente è anche il nostro, è che si sentisse estraneo rispetto al mondo del calcio, come il suo post-calcio (mai provato ad allenare o a dirigere squadre, nemmeno per scherzo, mai voluto essere coinvolto in iniziative di club) avrebbe poi dimostrato. Si era fatto scivolare addosso le combine da uomini di calcio, come Avellino-Perugia e tantissime altre di cui non sappiamo, perché fondamentalmente pensava di essere superiore. Non è mai stato provato che avesse preso parte degli 8 milioni di lire dati dagli scommettitori a Della Martira perché li spartisse fra i compagni giusti, né i 2 milioni in contanti di cui ad un certo punto aveva parlato Trinca, ma al di là della verità giudiziaria proprio questo gli aveva chiesto Bearzot in quel famoso incontro del novembre 1981 a Torino: “Paolo, sei colpevole?”. Rossi era convinto di non esserlo e convinse anche Bearzot. E, cosa più importante ancora, convinse noi italiani. Poi, come del resto nemmeno il commissario tecnico, in quell’albergo di Vietri sul Mare non c’eravamo. Lo ammettiamo: anche oggi pur essendo in vista del traguardo finale ci sentiamo come quel bambino, forse mai esistito nella realtà, che urlò ‘It ain’t true, is it, Joe?’ a Shoeless Joe Jackson.

Share this article