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I bei tempi del Totonero

Stefano Olivari 09/01/2013

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I piagnistei e gli articoli nostalgici sulla chiusura dell’ippodromo del trotto di San Siro lo scorso 30 dicembre, chiusura probabilmente definitiva, ricordano per molti aspetti quelli sui fallimenti delle piccole librerie. Nel 2013 così come compriamo su Amazon scommettiamo sul web, il mondo va avanti e non sempre a nostro danno. Ci sta che un appassionato di ippica, avendo a disposizione tutte le corse del mondo a casa propria, eviti di congelarsi in un pomeriggio di inverno o di intristirsi in uno d’estate. Perché poi il vero problema non è la speculazione immobiliare, che su quelle aree ha messo gli occhi da anni (a maggior ragione con la fermata della linea 5 della metropolitana prossima ventura), ma il disinteresse del pubblico. Chi ci è andato di recente non ha avuto bisogno di grandi calcoli per valutare in sessanta anni l’età media delle poche centinaia di presenti, con pochissimi picchetti aperti e nessuno in coda al totalizzatore. La spiegazione non risiede solo nella modifica dei gusti delle nuove generazioni, ma nella legalizzazione delle scommesse sportive (cioé quelle extra-ippica) avvenuta 15 anni fa. Bisogna essere sinceri: gran parte dei frequentatori degli ippodromi nei decenni scorsi (noi compresi, anche da minorenni), andava lì perchè lì trovava un contesto e vari personaggi che permettevano di scommettere su calcio e altri sport. Situazioni che fiorivano fisicamente poco distanti dai banchi legali ma che dell’ippodromo erano la linfa: finito o ridimensionato il Totonero, tanto per chiamare le cose con il loro nome, l’ippica pulita (per quanto non esista un’ippica pulita, visto quello che avviene ai danni dei cavalli) ha iniziato un declino che è arrivato ai giorni nostri e che tocca quasi tutte le città che offrono alternative di divertimento, da Roma a Napoli. Il risultato è che sull’ippica si scommette meno della metà dei soldi rispetto a 15 anni fa e che la baracca potrà rimanere in piedi soltanto con contributi statali a fondo perduto in maniera non diversa da quanto sta già accadendo (attraverso l’Unire) e da quanto accade in mille altri settori, dall’agricoltura al cinema. Ma anche in questo caso sarebbe per lo stato più conveniente occuparsi della sopravvivenza delle singole famiglie, attraverso sussidi di disoccupazione, che di quella di uno sport che interessa ormai a pochissimi.

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