I bei litigi di una volta

13 Maggio 2010 di Alberto Facchinetti

di Alberto Facchinetti
Gianni Brera non ha dato molto alle trasmissioni tivù, ma le sue sfide a colpi di articoli infuocati con i colleghi possono lo stesso rappresentare un precedente illustre dei dibattiti odierni…
La verve polemica di Brera era innata. Indro Montanelli scrisse di lui: “La sua lunga carriera fu costellata di risse: ne fece con tutti, non solo a proposito di lingua. Specie in fatto di calcio pretendeva di saperla più lunga di qualsiasi presidente di società. O commissario tecnico, o allenatore, e la cosa è tuttora, presso addetti ai lavori, oggetto di contestazione. I suoi giudizi inappellabili, erano colpi di clava. I giocatori che non gli piacevano li chiamava, quando andava bene, abatini; e quando andava male, palabràtici o posaglutei. La sua fortuna fu quella di essere vissuto in un’epoca in cui i duelli erano passati di moda. Altrimenti avrebbe trascorso le sue giornate a bucare e a farsi bucare. Ma non ci fu mai furor di litigio né oltranza di polemica che riuscissero a fare di Brera un uomo meschino o un collega sleale”.
Negli anni Sessanta e Settanta sulle pagine dei quotidiani erano frequenti le battaglie tra i giornalisti dello sport. Gianni Brera ha polemizzato soprattutto con i giornalisti della scuola napoletana guidata da Luigi (Gino) Palumbo e Antonio Ghirelli. Brera rinfacciava alla scuola napoletana di non avere conoscenze calcistiche sufficienti per poterne scriverne, essendo loro – secondo Brera – completamente digiuni a livello tecnico-tattico. Per Brera i giornalisti napoletani la buttavano sempre sul sentimentale, senza invece considerare con attenzione il gesto sportivo. In quegli anni la stampa sportiva si divise in due filoni. I breriani erano coloro che conoscevano lo sport, mentre i partenopei erano quelli maggiormente attenti all’aspetto socio-antropologico delle fenomenologie sportive. Le sfide tra giornalisti sportivi esistevano già quindi, ma erano di natura diverse. Giorgio Micheletti ce le ha descritte così: “Quelle di allora erano delle vere e proprie guerre di religione calcistica tra chi difendeva il sistema e chi preferiva il vianema, tra chi si professava paladino del gioco bello e arioso e chi perseguiva solo il risultato, come poco conta”.
Se Brera era per il gioco all’italiana, improntato sul difensivismo, Palumbo e gli altri insistevano per un calcio con un modulo offensivo. Ma spesso i due si contrapponevano quasi per partito preso. Quando uno diceva bianco l’altro rispondeva nero. Brera addirittura pensava che Palumbo non avesse idee proprie, ma che gli bastasse fare il bastian contrario il giorno dopo aver letto quello che aveva scritto lui. Brera quando Palumbo diventò direttore della Gazzetta scrisse sul Guerin Sportivo: “Sono ansioso di leggere gli strambotti della scuola napoletana, i cui epigoni mi tengono oggi allegro come niente e nessuno. Secondo la scuola napoletana, una partita è divertente solo se si vedono molti goal”. Tra i due la sfida finì pure a cazzotti. L’incontrò di boxe avvenne in tribuna stampa dopo un Brescia-Torino. Palumbo chiamò Brera per nome e senza lasciare a questi il tempo di girarsi gli mollò uno schiaffone. Brera si alzò dal posto dove sedeva e rispose con un paio di pugni che stesero a terra il rivale sanguinante. Alcuni colleghi presenti dovettero dividere i due, per evitare che la rissa degenerasse in qualcos’altro. Per Palumbo il grande rivale era colpevole di aver scritto male di Ghirelli e quindi di conseguenza di tutta la scuola napoletana. Quando nel 1976 Palumbo diventò direttore della Gazzetta, Brera che era appena tornato al giornale se ne andò immediatamente via. Il perché lo spiegò anni dopo. “Oggi c’è una premeditazione demoniaca di non essere profondi. E questo è dovuto a Gino Palumbo. Palumbo è furbo. Intanto lui non sa niente… lui è un bravissimo giornalista-manager… anzi, lui non è un giornalista perché non sa scrivere. Ha sempre fatto una fatica… e lui ha cancellato dal suo giornale il concetto tecnico, perché gli è ostico e pensa lo sia per tutti. E questa è una cosa gravissima perché presto non avranno più lettori sportivi. Avranno dei lettori ai quali basterà il risultato con qualche commento superficiale. Ma non avranno più il lettore preparato”.
Anche con Ghirelli i rapporti furono tesi. L’antitesi tra i due è evidente se si analizzano due loro testi fondamentali: Storia critica del calcio italiano di Brera e Storia del calcio in Italia di Ghirelli. Scrivono Italo Cucci e Ivo Germano: “Alla ricognizione, erudita e scrupolosa, del testo ghirelliano Brera oppose una serie di tesi ferventi, basate su scelte tecniche-tattiche. Fieramente avversario della prosa vagamente dannunziana di Bruno Roghi e di quella ridondante di Gino Palumbo e Vladimiro Caminiti, trovando continua solidarietà nell’allora direttore di Tuttosport Giglio Panza”. C’è una contrapposizione tra i due libri. “La storia critica del calcio italiano di Gianni Brera è un libro eccezionalmente autobiografico, un manifesto completo dell’idea del calcio breriano, mentre La storia del calcio in Italia di Antonio Ghirelli è più politica, cioè focalizzata sulle regole e sulle procedure istituzionali, altrettanto importanti, del mondo del calcio”. Per Brera Ghirelli era un buon giornalista, ma che di pallone non sapeva nulla. Ghirelli non è che non stimasse Brera, ma non condivideva le sue posizioni settarie.
Nel 1962 Ghirelli fu inviato in Cile, dove si disputavano i Mondiali di calcio. Il suo primo articolo dal Sudamerica però non parlava di pallone ma delle condizioni del paese cileno. Di strade messe male, di donne sciupate. Un pezzo duro che scatenò un putiferio. Tanto che sembra che l’organizzazione del Campionato abbia poi fatto pagare alla Nazionale italiana (buttata fuori dal Campionato da un arbitraggio scandaloso) l’articolo di Ghirelli. Brera pure lui inviato in Cile che fece? Si schierò con il giornalista napoletano? Noo… addirittura aiutò i cileni a dare la caccia al collega. Ghirelli ha spiegato anni dopo cos’è successo. “La sera che andai a cena per la prima volta in un ristorante alla moda di Santiago non sapevo ancora nulla della tempesta che avevo scatenato e mi accomodai tranquillamente a un tavolo vicino a quello dove sedeva, con altri colleghi, Gianni Brera. Un cenno verso di me del grande Gianni e un omaccione cileno – che più tardi seppi essere il campione sudamericano di lotta greco-romana – mi piombò addossò e, urlando in castigliano, mi accusò di aver offeso sanguinosamente la sua patria e i suoi cittadini. Ancora oggi non so come mi sottrassi a un linciaggio, anche se non nascondo di aver provato una vaga sensazione di terrore di fronte a quell’energumeno, che in qualche modo gli astanti (non i giornalisti italiani, per carità) avevano bloccato”. A spiegare ai lettori italiani invece cosa quel pezzo di Ghirelli aveva causato alla Nazionale Italiana “ci pensarono i colleghi inviati in Cile, e in particolare Brera quando si può fare un piacere a un amico…”
Pure il rapporto con Giovanni Arpino fu complicato: Brera ebbe modo di litigare pure con lui. E la baruffa finì in tribunale. Un tempo i due erano amici, poi però qualcosa tra di loro si ruppe. Arpino era passato a La Stampa e Brera non questo non lo accettò. Perché, secondo lui, Arpino era diventato per convenienza un torinese che odiava Milano. Insomma, un voltagabbana servo di Agnelli. Per conto suo, Arpino si era vendicato aizzandogli contro un attaccante durante la Domenica sportiva dove Brera “ne uscì – ci ha raccontato Ziliani – con le ossa rotte, messo al tappeto da un avversario che nemmeno aveva la tessera di giornalista: si chiamava Roberto Bettega, giocava nella Juventus e batté Brera 3-0”. Gianni Mura visse quegli anni al confine tra Brera e Arpino. “Mi alzavo alle otto perché andavo a fare la prima colazione nell’albergo di Giovanni Arpino, a pochi isolati di distanza. Tra loro c’era il gelo, il silenzio dopo anni di

affettuose frequentazioni e solenni attestati di stima reciproca. Mi sentivo una specie di ponte, in qualche modo. Certamente privilegiato”.
Erano sfide quelle di allora. Indubbiamente. Brera contro Palumbo. Brera contro Ghirelli. Brera contro Arpino. Sfide sono quelle di oggi tra giornalisti sportivi all’interno delle trasmissioni sportive delle tv locali. Ma si possono trovare delle analogie? “Assolutamente no”, dicono i giornalisti. Per Mura “quelle polemiche volavano alto, quasi filosofiche, ed erano soprattutto scritte. Queste attuali sono cose da pollaio”. Per Zazzaroni “quelle erano le punte, quello il vertice. Nessuna analogia”. Per Crosetti ”quel tempo è finito. Quel giornalismo e quelle persone”. Anche per Scevola “non c’è assolutamente confronto: per cultura, competenza, intelligenza critica. Oggi il giornalismo si è imbastardito, è diventato una professione alla portata di tutti. I grandi ideali di un tempo, la passione per la penna e il giornalismo, lo scrivere attento e critico non esiste più nel giornalismo sportivo”. Per Vernazza: “Zero analogie, anche perché le disfide giornalistiche di una volta si consumavano sulle colonne dei giornali”. Per Norrito: “Credo che non ci siano giornalisti di quel livello e credo soprattutto che oggi un Brera, un Ghirelli o un Palumbo non andrebbero mai a dibattere in certe trasmissioni”. Per Cecere: “Brera era un polemista arguto, colto, fine. A me non è mai piaciuto per quella quota di razzismo che conteneva ogni suo intervento e per la prosa dedicata a un pubblico nordista, però lui, Ghirelli e Palumbo sono stati dei professori di giornalismo. Dunque i duelli verbali e persino quelli materiali, erano di un livello nemmeno lontanamente paragonabile alle risse da bettola che ci capita di vedere oggi”. Per Visnadi: “No, non si può. Ma quanti Brera, Ghirelli o Palumbo ci sono oggi nei quotidiani sportivi? Ci fossero, potrebbero affermarsi e affermare anche in tv”. Per Rossi: “No, decisamente no. Il giornalismo sportivo di ieri aveva grandissimi maestri: Brera e Ghirelli non ci sono più e forse oggi non piacerebbero nemmeno”. Dipollina: “Non scherziamo. E non per superiori qualità morali o qualcosa del genere, parliamo di tempi completamente diversi – ma proprio come se fossimo in millenni diversi, e infatti lo siamo – quanto per il prestigio clamoroso di quelli di una volta – e magari per l’uso della lingua italiana. Prestigio che però era ingigantito dal fatto che c’era un solo canale tv e che i giornali li leggevano tutti e si diffondeva quasi un’aura di leggenda su certi personaggi e certi episodi. Magari se esistessero oggi e qualcuno li portasse uno contro l’altro in uno studio tv, con un conduttore bravo a sobillare gli animi e procurarsi ascolti, finirebbe malissimo. La tv mostra e corrompe, altro non sa fare, per questo ha così grande successo”. Per Ravezzani invece “la polemica resta sempre la stessa, cambiano i contesti e i termini che l’accompagnano. Peraltro, l’oggetto del contendere è talmente effimero, che non credo che il livello si possa abbassare o alzare in modo significativo. I toni sono più accessi, certo. Ma questo vale per tutta la nostra società”. Anche per Sorrentino qualcosa, ma poco, è rimasto delle vecchie sfide. “Ci sono a volte dispute per così dire ideologiche, ma tutto è sempre ricondotto alla logica del tifo: io rappresento la Juve (pensa l’ospite juventino) e dunque anche di fronte alle intercettazioni di Moggi che fa le griglie arbitrali mi sento in dovere di dire che no, non è vero niente, è tutta una montatura, e allora gli altri? Quello che rappresenta il Milan nega l’evidenza quando è contro il Milan, quello dell’Inter fa lo stesso, e tutto diventa uguale, dilettantesco, privo di serietà. No, davvero, non vedo analogie di alcun tipo, purtroppo”.
Piccinini non rimpiange le vecchie sfide perché “farebbero addormentare anche gli insonni. Io non amo per niente Corno e Crudeli, ma non gli preferirei Brera e Ghirelli. Di Brera mi piacerebbe rileggere un libro, non certo un articolo. Diciamo, per restare alla tv, che il mio compromesso ideale è, come è successo nell’ultimo speciale Controcampo sulla violenza, una bella discussione tra Mughini, Liguori e Zucconi (Repubblica). Cioè: cultura, vivacità, ritmo, poca diplomazia e ironia. Non è necessario ritornare nel medioevo per vedere qualcosa di buono in tv, nello sport come in altri campi. Le interviste di Fazio o di Minoli sono molto meglio di quelle mitizzate di Zavoli”. E nemmeno Damascelli sembra rimpiangerle. “A quei tempi le sfide finivano a cazzotti (Brescia, Brera-Palumbo), con offese pesantissime e insinuazioni volgari, ma senza prova tv”.
Praticamente nessuno ha voluto vedere in quelle sfide a colpi di penna dei precedenti per i dibattiti che ci sono oggi in tv. Sono cambiati i tempi e sono cambiati i personaggi (quelli di un tempo sono diversi da quelli di oggi). Si preferivano quelli di allora, ma in quel preciso contesto. In quello di oggi, apparirebbero anacronismi.
Alberto Facchinetti
alberto.facchinetti1@virgilio.it
(per gentile concessione dell’autore, fonte: ‘Il giornalismo sportivo. Il rapporto tra la carta stampata e le tv locali da Gianni Brera ad oggi’, tesi di laurea in discipline dell’Arte, Musica e Spettacolo all’Università di Padova, anno accademico 2006-2007)

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