Giornalismo un po’ fané

8 Gennaio 2010 di Dominique Antognoni

di Dominique Antognoni
Gli studi del critico gastronomico, le note spese dei Brera frustrati, i clienti che non si accorgono della truffa, un menu senza passione, quindici minuti per un piatto e l’immancabile articolo riparatore.

1. Visto che tutti possono scrivere di tutto e che la maggior parte della popolazione si sente un po’ Severgnini, cioé naturalmente portata alla tuttologia, anche noi iniziamo una rubrica gastronomica. Magari destinata a durare una sola puntata, come è nella filosofia incostante, inconcludente ed improduttiva di Indiscreto. In fondo nessuno ha l’esclusiva dei giudizi sulla sogliola al cren nella piccola trattoria di Lodi oppure sull’aringa alla tartara di Lipari, la ciambella di anguilla a Trieste oppure il filetto di trotta con mango a Cagliari. Non risulta si debba avere un patentino (anche se in Italia non si sa mai) per poter sdottorare su linguine e risotti. Non è come per diventare allenatore, ovvero andare a Coverciano, seguire un corso e dare l’esame, ma solo dopo aver giocato una montagna di partite come professionista. Neanche si deve fare una faticaccia come per prendere la laurea in legge oppure in medicina. No, qui basta mostrare amore verso il cibo e soprattutto trovare un direttore che ti dica di si.
2. In un mondo di improvvisazione, quella dei critici gastronomici (altri capitoli che apriremo: la moda e l’economia) riesce comunque sempre a colpirci. Conosciamo alcuni che fino a ieri parlavano del 4-4-2 di Capello e ora sbrodolano con la stessa sicumera sul risotto al tartufo bianco. Esperienza nel settore gastromico? Buona: sperimentavano pietanze e vini mettendo sulle note spese dei giornali centinaia di euro a botta, finché i giornali hanno tollerato gli inviati e le ruberie di molti di loro. Anni fa un (una) giornalista, più noto (a) per l’amicizia con i calciatori e per lo sfruttamento dei colleghi che per i suoi articoli, decise di dire basta al calcio, alle trasferte e alle cene pagate con i soldi del giornale per diventare, sulle pagine dello stesso quotidiano e con i soldi dello stesso, nientepopodimeno che…critico gastronomico. Così, di punto in bianco: dal calcio alla caciotta, dalla zona alla cucina. Tanto non sapendo nulla una materia vale l’altra. Sono storie di tanti anni fa, ma abbiamo ancora negli occhi una doppia pagina sul mondo degli oli da tavola, in cui si sospirava per quei ristoranti dove portano la lista delle spremute di oliva. Ce ne saranno cinque in tutto il mondo. Niente nomi o riferimenti, per non mettere alla gogna un personaggio che in realtà ha omologhi in quasi tutti i giornali italiani. Molti altri sono infatti gli esempi di passaggio dal giornalismo sportivo alla critica gastronomica, o almeno di convivenza fra le due attività. Due mondi che a ben vedere hanno molte cose in comune, la prima delle quali è che una persona presa a caso in mezzo alla strada potrebbe svolgere entrambe le professioni. Per lo meno nel modo in cui vengono accettate da giornali e, purtroppo, anche da lettori. Tutti Gianni Brera frustrati, stanchi di parlare di stiramenti e autogol ma non di compilare note spese.
3. Questo per dirvi che domani mattina ognuno di noi può aprire una rubrica gastronomica e assegnare stelle, stelline, forchette, pallini, tanto nessuno ha la verità in tasca sul mondo della ristorazione. Vale per qualsiasi argomento, ma se in politica oppure nello sport si può parlare di esperti (gente che segue, che impara, che ha praticato, che conosce) nella ristorazione la regola vale zero. Ne abbiamo avuto l’ennesimo esempio proprio pochi giorni fa, quando un noto ristorante milanese è stato bastonato su un quotidiano importante. I fatti sarebbero questi. Da Peppino, in via Durini, si siedono a pranzo e cena imprenditori, avvocati, nobili e via di questo passo. Le poche volte (non siamo vip e Indiscreto non è l’unico editore a non pagarci) che ci siamo andati abbiamo cenato accanto ad Anna Wintour, la direttrice di Vogue America, Fedele Confalonieri, Paolo Mieli, Marco Tronchetti Provera e vi risparmiamo l’intero elenco. Gente che avrà mille difetti ma che di sicuro può scegliere, gente che se non gradisce la piega di un tovagliolo cambia subito il ristorante. Invece no. Vengono da anni da Armando Sebastiani, per due decenni maitre all’ormai scomparso Saint Andrews (il locale lo comprò Prada): posto di culto anni Ottanta caro al direttore di questo sito (non come cliente, ma come raccoglitore di dichiarazioni di presidenti e procuratori all’uscita: già all’epoca lui era da rustichella). 
4. Ebbene, la clientela di Peppino ha avuto uno choc quando ha letto l’articolo “Atmosfera fané, menu senza passione”. In un colpo solo si saranno sentiti degli idioti perché da una vita mangiano da schifo in un ambiente scialbo senza accorgersene. Quando poi hanno anche appreso che “i prezzi sono alti, l’arredo datato e le note invadenti da sottofondo da crociera anni Settanta” quasi prendeva loro un colpo. “O caspita, possibile che per vent’anni siamo stati fregati?”, sarà stato l’impatto iniziale. Poi uno torna in sé, si guarda attorno, vede il sole che penetra dalle finestre, assaggia il cibo che ordina e apprezza da lustri e si fa due risate. Un esempio fatto non a caso, di un ristorante dove (è bene precisarlo, non siamo critici gastronomici) paghiamo il conto con i nostri soldi e che non ci offre altri vantaggi oltre al servizio per cui paghiamo. Ci piacerebbe esserne proprietari o quantomeno soci, però ci accontentiamo di mangiarci ogni tanto. Non siamo abbastanza competenti, lo ammettiamo, per dire se la cucina di un ristorante sia da Guida Michelin, ma siamo abbastanza vecchi per renderci conto se ci troviamo oppure no in un merdaio. Il punto è che quando leggiamo la stessa critica ad un ristorante dove non siamo mai stati (cioè quasi tutti) la prima tentazione è quella di crederci.  
5. In generale però il problema rimane. In base ai quali criteri uno parla di atmosfera fredda, servizio lento, cibo anonimo e senza passione? C’è una tabella da seguire? Un tempo massimo da rispettare? Un manuale? Un corso? Una legge? A volte ti tocca leggere amenità del tipo: “Non si deve aspettare più di 15 minuti per un piatto”. E se invece a me piace aspettare? Posso? Se un ristorante è pieno, se la gente prova piacere nell’andarci e soprattutto se torna un perché ci sarà. La verità è che per ottenere una rubrica su cibi e vini basta bussare alla porta del direttore, il quale per non sentire più le tue lagne ti accontenta. Come nel Brasile degli anni Sessanta se eri scarso con i piedi giocavi in porta, ora se non sei in grado di portare una notizia di sport puoi sempre scrivere della salsiccia alla lodigiana. 
6. L’aspetto davvero comico della vicenda è che in un colpo solo il nostro esperto ha dato del coglione al suo attuale direttore e a quello passato, entrambi clienti fissi del ristorante. Facile previsione: dopo l’articolo ultra-negativo ce ne sarà uno di riparazione, secondo le peggiori tradizioni. Sarai pure incompetente, ma una volta che hai una posizione devi mantenerla. Pare che l’attuale numero uno del quotidiano non abbia gradito di sentirsi dire che cena in un ambiente fané e che mangia in maniera anonima. Come per incanto le parole si trasformeranno: il menu da anonimo diventerà frizzante, l’ambiente da fané classico e i prezzi da alti contenuti. Quasi ci stavamo dimenticando: due anni fa l’altro critico gastronomico del giornale (ma sì, dai, ce ne sono due, anzi di più) aveva elogiato il ristorante. Un anno lo si esalta, un altro lo si affossa. In entrambi i casi ci chiediamo con quale competenza specifica. Vale anche per i giudizi positivi, che come tutti sanno sono la base ideologica di certe pagine.
Dominque Antognoni
(in esclusiva per Indiscreto)
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