Foodblogger di oggi e scrocconi di una volta

8 Luglio 2016 di Dominique Antognoni

Abbiamo letto su Dagospia un articolo molto simpatico, riguardante i critici gastronomici. L’argomento è assai attuale e può essere sintetizzato così: i blogger di oggi starebbero distruggendo la serietà del mestiere del critico, una volta nobile e rispettata non soltanto nel settore della cucina. Messa in questo modo la cosa potrebbe anche essere vera, se non fosse per la contrapposizione con ‘quelli di una volta’. Noi non sapremmo come definirci: non siamo blogger (scriviamo di enogastronomia su giornali cartacei, in particolare sul Giornale) ma per motivi di età nemmeno siamo ‘quelli di una volta’ pur conoscendoli molto bene. E potendo affermare che la maggioranza è umanamente deplorabile, con eccezioni che si contano sulle dita di una mano.

Chi è obeso, chi è corrotto, chi sozzo: tutti esigono e pretendono da ristoratori e produttori il tappeto rosso, ringraziamenti infiniti (non del tipo “grazie”, no, per loro è troppo poco). Molti di loro sono stati denunciati per molestie sessuali, altri sono famosi per giochi erotici oltre la fantasia più malata (far passare la pasta nella passera di una donna in una cucina, con dieci gatti a guardare, sfugge a qualsiasi definizione). Alcuni hanno scritto articoli sui ristoranti della moglie, senza provare alcuna vergogna. Poi ci sono quelli cacciati da ogni dove che si lamentano del livello scadente dei giornali, per non dire che vivono perennemente con il complesso di superiorità. In più sono presuntuosi, permalosi al massimo, hanno la verità in tasca a qualsiasi ora, loro sanno e tu no. Molti si presentano al ristorante con capelli e magliette unte, altri si portano la moglie e il marito, alcuni perfino amici della moglie e figli, nipoti, conoscenti. Per fare un solo esempio, una sera avevamo organizzato la cena di una giornalista in un posto chic appena aperto: in principio al tavolo avrebbero dovuto sedersi in due, in realtà si presentarono in otto (amici e parenti non finiscono mai).

Mangiano spesso come animali, bevono come se avessero attraversato il deserto a piedi, in pieno mezzogiorno. Un esempio? Quel critico che oggi divide e impera che, in meno di 45 minuti, ha mangiato qualcosa come sei portate, ingozzandosi come se non ci fosse un domani. “Buono, complimenti”, disse. Lo chef ci chiamò esterrefatto: “Cosa avrà mai capito dei miei piatti?”. Nulla, ma tant’è. Non sappiamo se abbia anche ruttato, non lo escludiamo. Diciamolo fino in fondo: alcuni scrivono male e in maniera noiosa, con una vocabolario elementare, per nulla intrigante e coinvolgente. Sono diventati critici senza alcuna preparazione, esattamente come i blogger di oggi. Molti lo sono diventati per sfinimento, nel senso che il capo redattore di turno, pur di levarseli dai piedi, ha alzato bandiera bianca. Di sicuro sono troppo presi da loro stessi e dallo specchio per notare che gli articoli sono supponenti e poveri.

Attualmente è in programmazione su Sky Prima Fila un film strepitoso sulla vita degli chef stellati: si chiama Burnt. La traduzione in italiano è pessima, “Il sapore del successo”, ma non è questo il punto. Uma Thurman interpreta una critica gastronomica di primo livello: è raffinata, elegante. C’è anche una figura maschile, sulla cinquantina: pure lui vestito bene e austero, distinto. Però è un film, appunto. La realtà è ben diversa. Un esercito di pr e uffici stampa ha fatto il resto, aumentando a dismisura il proprio ego. Frasi del tipo “che piacere averla qui”, “sarebbe un immenso onore averla con noi” e via discorrendo sono quello che i critici esigono e pretendono di sentire, pur sapendo che spesso si mente spudoratamente. Continuando: chiedono sempre casse di vino, champagne, prosciutti. Le aziende non osano rifiutare, pensando che in tal caso potrebbero negarsi delle recensioni favorevoli: a dire il vero hanno ragione. Esempi ne possiamo fare anche qui: uno inizia subito a dire che la produttrice ics è una troia, oppure una lesbica, appena non consegna delle bottiglie a titolo gratuito. Un’altra è famosa per stroncarti se non le dici ogni santo minuto quanto sia meravigliosa, competente, bella e intelligente.

Piccola aggiunta, riguardo l’articolo su Dagospia: vero che il critico spesso non paga, però c’è una spiegazione e bisogna darla in maniera trasparente (lasciamo stare parole come onestà). Noi stessi non paghiamo e non è un segreto il perché: quando vai in un ristorante chiedi allo chef di farti sognare e di farti degli assaggini di tutti i suoi piatti più importanti, così da poter capire la sua filosofia, le idee, il suo modo di cucinare. Poi dopo aver letto tutto il possibile su di lui (o lei) gli fai delle domande si spera puntuali: in tal modo porti a casa una marea di informazioni, con l’unico scopo di offrire al lettore una versione ampia e assai completa su quello che potrebbe trovare in un locale. Che sia chiaro: andare lì e mangiare non significa per forza di cose avere una recensione positiva. Però va detto che si scrive un articolo solo se puoi far sognare il lettore, altrimenti facciamo finta di nulla, ovvero bocciamo il ristorante e lo chef. Nessuno, o quasi, si è mai lamentato di una mancato pezzo pubblicato: sono i primi a intuire il motivo.

Tornando al discorso dei favori, potremmo continuare all’infinito. Gente che dice di voler provare il ristorante, per poi ovviamente fermarsi a dormire nelle stanze lussuose dell’albergo (nel caso ci fosse, evidentemente). Gente che, abbiamo visto con i nostri occhi, porta il marito a cena come se fosse un cane di piccola taglia. “Non potevo lasciarlo da solo a casa”. Domanda: noi che andiamo a lavorare a San Siro, alle partite, non ci portiamo le mogli. Perché allo stadio si lavora (si fa per dire), vale anche per i ristoranti. I “critici di una volta” se ne impippano. Gli chef provano simpatia verso i coloro che non calcano la mano autoinvitandosi un giorno sì e l’altro pure. Quante volte non li abbiamo sentiti dire robe del tipo “Quello è uno forte, non scrive di te con lo scopo di tornare a mangiare gratis”. Lo dicono come se si trattasse di un miraggio, quando dovrebbe essere la regola. “Quelli di una volta” sono aridi, esigenti nel chiedere, soprattutto vini e champagne: a tal punto che spesso per un ristorante vale di più acquistare una pagina pubblicitaria, verrebbe a costare meno.

Ecco, siamo proprio sicuri che le nuove leve, nate e cresciute con internet, siano peggio? Di sicuro no, anzi. Abbiamo assistito in diretta ad un caso che merita essere raccontato. Una sera Chiara Maci si è presentata al Ghe sem, ristorante con specialità dim sum, in Via Vincenzo Monti a Milano (presto la recensione del direttore di Indiscreto, che ha tutt’altra filosofia rispetto alle nostre visto che a lui interessa soprattutto l’ambiente) e subito dopo ha messo un post su Instagram. Dopo meno di mezzora arrivarono a cena una decina di persone, convinte e conquistate dalla blogger. Nessuno di “Quelli di una volta” ha oggi una tale autorità e potere.

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