Giardiniere ostinato

5 Giugno 2009 di Oscar Eleni

di Oscar Eleni

1. Ci voleva un giardiniere ostinato come Jobey Thomas per togliere dalle spalle dell’Armani la scimmietta delle scelte superficiali: lui ha bagnato il giardino ogni giorno della sua vita milanese, anche quando la gente gli gridava cose incredibili, anche quando Bucchi lo teneva fuori, anche quando Livio Proli taceva dopo aver dichiarato, all’inizio della stagione, che avrebbe voluto avere in squadra tutta gente come questo predicatore di Charlotte.
2. Ci voleva fede, bisognava essere tosti, ma il tipo deve essere proprio così se ha resistito a tutto, alle lune di Sow, alle lune dell’allenatore che non ha mai voluto tirare sotto con l’automobile, alle lune di una squadra che doveva ascoltare prima Hawkins, poi Vitali, che ancora non sapeva di aver avuto dalla sorte il regalo di una buona base sotto canestro perché se a Marconato e Taylor aggiungete Beard e Rocca potrebbe venir fuori una miscela esplosiva anche per le partite contro il Montepaschi che vede all’orizzonte un quattro a zero bello rotondo, ma, se dovesse avere un dubbio, tanto per rendere più affascinante la finale, potrebbe farselo venire pensando che il solo Eze è poco in una battaglia giocata con il senso di Thomas per il basket e la neve che c’era intorno a lui. A proposito del Jobey scoperto a Imola, allevato bene a Ferrara, diventato idolo a Montegranaro, vi diciamo che è un tipo speciale perché parla persino l’italiese in mezzo a tanti american beoti che pur con il passaporto della Repubblica ancora fingono di non riuscire a dire buon giorno e buona sera.
3. Ci lascia Biella e allora applausi a scena aperta per la società che ci ha dato tanto ed un palazzo nuovo, per il Luca Bechi che ha camminato nella grande valle dei sospiri facendo cose che qualificano un vero allenatore, un buon allenatore e adesso vediamo se Atripaldi ci ripensa, anche se è pur vera questa storia dell’usura nei rapporti, se è scritto che questo livornese, da otto anni, vive nella contrada biellese. La sua Angelico è stata bella quando è diventata squadra, quando è riuscita a convincere gli egoisti del gruppo che forse sarebbe stato meglio giocare insieme prima di separarsi a schiaffoni. Lo hanno fatto resistendo fino a quando le gambe tenevano, poi è venuto fuori il malessere, quello che ha fatto stravedere persino uno in gamba come il Guerrini di Tuttosport che nelle ultime pagelle ha perdonato i peccatori della difesa, tipo Aradori, ed è andato a prendersela persino con Sangarè che è diventato inutile all’Armani soltanto perché chi guida non vede tanto lontano, ma avendo anche fortuna come il dottor Magoo, non è andato a sbattere, anzi, adesso vola nelle curve senesi, sulle Crete del Minucci. Semifinali che congedano una che ha respirato vivo dopo tanto tempo, che ha trovato un progetto e ora vuole cavalcarlo. Deve decidere presto, però, il nome dell’allenatore se è vero che il pilota di oggi sembra già accasato in Turchia. Progetto verde, progetto giovani, ma se gli stranieri saranno giusti vedremo anche spuntare dalla terra un fiore capace di resistere alle crisi di vocazione.
4. Su Biella vi diciamo subito che soltanto Jonas Jerebko ci ha incantato davvero, che Smith è stato l’uomo chiave e, infatti, quando è saltato in aria lui, terza di Milano, quarta in casa, l’Angelico ha perso le ali, che Brunner è un mastinaccio di vecchia generazione da tenere sempre se puoi permettertelo, che Aradori si è mosso dalla casella dove i giocatori dell’oca, quelli che pensano sempre e soltanto a tirare, sbevazzano e si fossilizzano. Ora può diventare un vero giocatore e la difesa deve entrargli in testa anche se il ciclone Thomas lo ha investito. Lui, come James Gist ha ancora tanti antipasti da digerire, molti primi, prima di chiedere il conto per salire di categoria. Garri e Spinelli hanno dato più di quello che ci aspettavamo da due giocatori che in passato avevano scelto strade dissestate, il primo borbottando fuori la sua concentrazione labile, il secondo andando a cento all’ora contro ogni muro, anche quando c’era da far lievitare il gioco degli altri. Su Jurak vale il discorso Brunner, uno che si batte sempre, non uno per cui perdere la testa, ma contro il quale puoi anche perderla. Unica vera delusione annunciata il Reece Gaines che soltanto alla fine ha pensato al basket come gioco di squadra, ma di sicuro si è pentito se pensiamo alle ultime uscite, quelle dove a Milano brindavano due volte: una per averlo mandato via, ingolfando Treviso, un’altra per averlo avuto come avversario con in mano i palloni importanti. Fine della saga di semifinale, ci sente lunedì per presentare l’ultima fiesta perché prima bisogna votare e poi riposare.
Oscar Eleni
(per gentile concessione dell’autore)
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