Fuori dal Kemp

28 Febbraio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Fermata di bus obbligatoria negli anni Novanta, dalle parti di una meteora splendente; un animale di raro interesse scientifico per caratteristiche e storia personale. Shawn Kemp incarna meglio di chiunque altro l’idea stereotipata dell’Nba helluva player, mefistofelico nell’alternare un talento quasi eccessivo con una zavorra subculturale oltre l’imbarazzo.

Al di là del bene e del male, Priest di due e dieci, uno stereotipo ingombrante di quali mostri (nel senso più freak del termine) possa (de) generare un sistema basato sui biglietti verdi; tanti, troppi e subito.
Il Kemp come cestista fu importantissimo sia dal punto di vista evolutivo, del gioco, che da quello politico-sociale: inarrestabile a livello liceale, nello stato (l’Indiana) che vanta la tradizione scolastica più leggendaria, divenne il prospetto più ambito della Ncaa. Malgrado i test d’ammissione al college falliti in serie… Eppure per Kentucky, l’università che lo “convinse” meglio, non giocò un singolo minuto; coinvolto in controversie di ogni tipo, compresa l’accusa di furtarelli nel campus, si chiamò fuori da Lexington dopo poche settimane. Parcheggiato in un improbabile junior college texano, si dichiarò finalmente (?) per il draft Nba: scelto altissimo, al numero diciassette, a dispetto dell’inattività e della fama già sulfurea.
La presa dei Sonics anticipò e impose un nuovo trend, ovvero la possibilità di puntare forte sui bambini con i denti ancora da latte: dopo gli anni ruggenti di Big Mo, Dawkins e Willoughby fu il prologo al nuovo corso dei baby boomers alla Garnett-Bryant. Progressivamente, in un crescendo degno di Eddie Hazel, Manchild si trasformò in Reignman: l’icona pop degli alley oop per i più distratti, il prototipo della power forward moderna per i tecnici. La nuova carne del ruolo, un corpo bionico affiancato da un atletismo inedito per quelle misure, crebbe tecnicamente in maniera mirabile: il jumper sempre più affidabile, l’istinto animalesco per i rimbalzi d’attacco, la minaccia costante dei suoi raddoppi difensivi, magari suggellati da stoppate volleistiche. Un quattro che poteva occupare lo spot da cinque, ma con i piedi e la rapidità di un tre.
Partner in crime ideale, nelle stagioni ipertrofiche in quel di Seattle, un altro ragazzaccio come Gary Payton: la coppia di delinquenti giovanili interpretò benissimo il ruolo, ingrato ma divertente, di Stockton e Malone versione Nintendo vietata ai minori. Con i beep della censura a coprire le delicatezze del trashtalking e come marchio di fabbrica, al posto del pick and roll jazzistico, l’assistenza hip hop per una jam aerea del numero 40. Potremmo affermare, solcando i cieli burroughsiani dell’estremo, che se i primi furono assenzio, gli altri impersonarono il crack. Già, perchè la portaerei occidentale più futuribile di quel tempo ebbe problemi infiniti nel dispiegare definitivamente il potenziale atomico: per illustrare meglio la vicenda, “Superfly” permettendo, dovremmo introdurvi a The Asylum.
George Karl, l’allenatore che ha sempre amato (tarkanianescamente..) i devianti di talento, tentò di gestire un gruppo fortissimo ma psicolabile. Un’accolita male assortita di quella allucinazione collettiva che i media definiscono gruppo; fu lo spogliatoio Nba dei Novanta che regalò più gossip criminale (..), al pari dei cugini del Turmoil Team di New Jersey. Se infatti il buon Shawn, paranoico come il migliore Tony Montana, andò in psicoterapia perchè convintissimo di essere odiato da tutti i compagni, ci fu anche il caso di Kendall Gill in lista infortunati per curare la depressione. Nel recente affaire Gilbert Arenas siamo trasecolati leggendo le dichiarazioni di certo personale di Sternville: infatti il Wizard è tutt’altro che primula rossa nella casistica, il Guanto (leader presunto dei Supersonics) entrò nella mitologia puntando un’automatica alla tempia del veterano Ricky Pierce.
Con queste premesse (e la presenza sporadica di gentiluomini quali Vincent Askew e Dontonio Wingfield) potremmo spiegare meglio i due seppuku consecutivi che li coinvolsero: nel 1994, al primo turno dei playoffs, entrarono nella storia dalla parte sbagliata come prima squadra con il miglior record in regular eliminata dall’ottava. Si suicidarono in diretta nazionale, contro i Nuggets di Reggie Williams e Mutombo, colpevoli di troppa arroganza; un atteggiamento, quello della Generazione X, che si riverberò anche con la maglia del cosiddetto Dream Team: Kemp trovò come spalla ideale in quel contesto un altro androide paranoide, forse il più incredibile di tutti, ovvero Derrick Coleman. E fece inorridire tutti quando, durante una delle cicloturistiche di quel mondiale canadese, festeggiò una tomahawk toccandosi i genitali: roba che anche i 2 Live Crew avrebbero trovato eccessiva…
Poi venne il 1996, l’anno nel quale Reignman mantenne le promesse: silenziosamente, tra un tuono e l’altro delle schiacciate, il migliore lungo del lotto; dotato di una continuità irreale, fisicamente strapotente, intoccabile in transizione. Seattle ebbe il dubbio privilegio di incrociare in finale i Bulls: stanchi, ma nel bel mezzo di una missione leggendaria; Kemp, opposto al miglior Rodman di sempre, raggiunse lo zenith della carriera. Avremmo bisogno di un macchinario infernale, prodotto dalle menti creative di una Le Guin o di un Dick, per saltare a un’altra sfida tra Supersonici e Tori, l’anno dopo: il 2 Febbraio 1997 assistemmo a due fenomeni curiosi. La partita (quasi) perfetta di Air Jordan, suggellata da un comodo (..) tiro in sospensione da metà campo alla fine del primo tempo; la fine ufficiosa della storia d’amore tra Shawn e Seattle. Fu proprio quel dì, alla vista di un Kemp parente lontano della solita belva da doppia doppia, che iniziarono a diffondersi le voci sull’alcolismo e la vita spericolata del nostro; la prima, lieve, flessione di rendimento rinfocolò anche le polemiche sul suo contratto, decisamente modesto considerando il suo stardom d’allora.
Venne quindi il tempo di Cleveland, una parentesi di ottimo livello per almeno un biennio, intruppato in un combo dal gioco veloce come un bradipo e malgrado Sport Illustrated… “Where’s daddy?” titolò l’inchiesta in copertina di quel giornale prestigioso; che non fece prigionieri e raccontò le scorie (radioattive?) della fama da pro baller. L’immagine di un Larry Johnson in limousine, a qualche ora dalla partita, che si reca annoiato in un ambulatorio per il test del dna, dopo l’ennesima paternità indesiderata, è favolosa: cattura l’essenza di uno spettacolo che si è trasfigurato in una mostruosità felliniana. Impareggiabile, tra un caso (in) umano e l’altro, il Greg Minor che si fa fotografare con il bimbo appena avuto da una signorina e che poi, alla richiesta di prebende per il sostentamento dello stesso, lo disconosce!
Ma fu proprio Kemp l’Mvp di quella Columbine mediatica: sette figli da sei donne diverse, con il conto tenuto ancora prudentemente “basso” in vista di ulteriori sviluppi legali. “Shawn, use a condom please!” fu la frase più carina rivolta all’All Star dal pubblico pagante in quel periodo; doppiò l’atavico “S-A-T!” che lo accoglieva anni prima nelle palestre dell’Indiana, per ricordargli i tanti problemi scolastici. Il tramonto, Norma Desmond incrociata con Tupac Shakur, arrivò con la velocità di Carl Lewis nei 200 piani: inserito come presunta arma tattica nella gioiosa macchina da titolo di Portland, divenne la ciliegina sulla torta di un disastro. I futuri JailBlaze
rs, quelli di Rasheed Wallace e Bonzi Wells, si sciolsero come neve (..) al sole e Kemp confermò una decadenza inarrestabile, anche nei costumi: furono due senatori saggi, Steve Smith e Scottie Pippen, a consigliare il ricovero dell’antico Reignman in un centro specializzato per tossicodipendenti. In questo caso i due, avendo scorto tracce del problema di Kemp su una panca della locker room, capirono al volo: non furono come Jeff Hornacek che, un decennio prima, raccontò in buona fede a un agente di polizia del borotalco maneggiato dai compagni di squadra..
Ultima fermata di questo Joe Pace extralusso, la palude di Orlando; dove, grasso come un tacchino del Wisconsin prima del Thanksgiving Day, assistette ammirato al T-Mac Flying Circus. Il puma che sprintava sul parquet si era dissolto come le nebbie primaverili dello stato di Washington, polvere di stelle del fenomeno che fu. L’epilogo a Montegranaro, nell’estate 2008, fu venduto come un colpaccio dalla stampa cialtrona, un diversivo allegro tra uno scoop di calciomercato e il castello di sabbia al mare: uno scenario talmente patetico da non essere nemmeno preso in considerazione. Del bimbo prodigio dell’Indiana, augurandoci che abbia finito di farsi del male, preferiremmo conservare un’altra fotografia: una dell’albatros in volo sul Coliseum, in maglia Supersonics, con i piedi ben staccati da terra. Fermo in quel frammento, nell’illusione che non atterri mai.
“Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!” (Charles Baudelaire)
 Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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