Enrico Brizzi, la vita da Nibali a Cavendish

In occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo, La primavera perfetta, abbiamo chiesto al vecchio cuore bolognese un po' di cose su calcio, ciclismo e storytelling

22 Aprile 2021 di Simone Sacco

Enrico Brizzi, colui che per il 100% dei lettori occasionali o dei diplomati in storytelling resta l’autore “di quel romanzo di formazione anni ’90, in cui un chitarrista rock drogatissimo decide di voltare le spalle al successo”, ha pubblicato da poco un nuovo libro. L’ennesimo della sua vicenda autoriale, davvero ben scritto, figlio di una ormai lontana epoca pre-Covid e ambientato, a suo modo, nel mondo del ciclismo professionistico e di una Milano, tanto per cambiare, affogata nella comunicazione. Protagonista è il comunque memorabile Luca Fanti, manager non privo di bassezze comportamentali che vive di luce riflessa e si occupa di gestire la carriera sportiva del fratello Oliver (detto Olli), campionissimo delle due ruote. Il resto della trama lo lasciamo agli occhi attenti di quei lettori di Indiscreto che avranno voglia di lanciarsi in un romanzo tipicamente epico (di quell’epicità così “brizziana”) e pieno d’amore, sorprese, cose non dette (e che forse si sarebbero dovute dire eccome). Tutto il contrario, insomma, della nostra intervista con lo stesso Brizzi dove la verve su svariati argomenti caldi del 2021 è tranquillamente uscita dal gruppo, andata in fuga ed ha alzato le braccia al cielo dopo aver tagliato il traguardo della sincerità.

Sbaglio o il mix caratteriale tra Luca Fanti (la voce narrante del tuo romanzo) e suo fratello Oliver (un campione di ciclismo dalla vita monacale) ricorda un po’ le complessità esistenziali di un certo Marco Pantani?

Sì, forse una filiazione indiretta ci può stare. Nel senso che la figura di Oliver Fanti resta un omaggio ad un certo tipo di ciclismo umano che ho amato molto nella mia vita. Comprese le imprese epocali di Pantani, ovviamente. Pensa che nel 1998 ho avuto la fortuna di vederlo sfilare lungo gli Champs-Élysées, al culmine di quel Tour leggendario, per quella che è stata la più grande vittoria della sua carriera.


Quella volta ti invitò qualche media televisivo?

No, ci andai da solo, da semplice tifoso, perché ero in vacanza da quelle parti. E, nell’attesa del Pirata, feci pure in tempo a fare amicizia con qualche ultras della Ternana che si trovava nei pressi delle transenne. D’altronde erano capitati anche loro a Parigi per incitare Marco.

Dunque Oliver Fanti non è ispirato a Pantani. Anche perché lui è uno sprinter che non lascia scampo agli avversari…

Esatto. Oliver, tecnicamente parlando, è più un Cipollini o un Petacchi. Magari un Mark Cavendish, giusto per restare in un’epoca più contemporanea e porgere tributo al Missile dell’Isola di Man, uno dei pistard che ho adorato di più in questi ultimi anni. 

Qualcuno, descrivendo Olli, ha tirato in ballo anche Moser…

Be’, Francesco era il mio idolo assoluto quand’ero ragazzino, ma in questo caso non mi trovo granché d’accordo.

Perché?

Perché io con il Moser attuale ci andrei a cena trovandolo un ottimo commensale e conversatore. Per esperienza diretta posso dirti che quell’uomo sa vita, morte e miracoli di ogni singola curva della nostra Penisola. E ha pure un’opinione autorevole su qualsiasi agriturismo del nostro Paese. “Qui si mangia bene, là servono un vino squisito, non ti far scappare quella pietanza”. Lui è fatto così e, se ascolti Francesco, ogni volta è una piacevole scoperta. Con Oliver, invece, sarebbero solo cene noiosissime. Con lui intento a fissare l’orologio in continuazione perché, da vero monaco delle due ruote, se ne vorrebbe andare a letto presto.

La Primavera perfetta è il tuo primo romanzo in cui, tra i personaggi principali, compare uno sportivo professionista. 

Sì, questo è vero.

Anche se tu, in forma diretta o indiretta (tipo quand’eri a capo di Italica Edizioni che dedicò libri all’Olimpia Milano e a Loris Stecca), di sport hai sempre scritto tanto…

Lo sport è sempre un buon motore narrativo, soprattutto se mi parli di un libro come ‘La primavera perfetta’. Però, come avrai intuito, Oliver Fanti non sarebbe mai potuto essere il personaggio principale dell’intera vicenda: troppo noioso e monotematico coi suoi ragionamenti da sprinter! (ride) Luca Fanti, invece, è un patrimonio umano molto più interessante nel suo essere un coacervo di errori e irregolarità. Luca è uno con cui ci tireresti l’alba a parlare di vita, piaceri edonistici e donne.

Una sorta di Walter Sabatini su carta?

Sabatini! Qui sì che mi hai citato un vero personaggione da romanzo… (sorride)

Che opinione ti sei fatto dell’attuale coordinatore dell’area tecnica del Bologna FC?

Lo stimo perché Walter Sabatini è uno che i romanzi potrebbe scriverseli tranquillamente da solo, senza l’aiuto di cantori o ghost writer vari. Il mio Luca Fanti, però, è più outsider nello spirito. Ha avuto la fortuna d’essere fratello di un campionissimo e ha sfruttato semplicemente la situazione genetica. Sabatini no. Lui è dentro quello che fa, vive il calcio 24 ore al giorno. E, nonostante ciò, riesce comunque ad emanare tutta quella sua empatica umanità.

Joey Saputo invece…

Saputo è un presidente del football odierno, figlio di quest’epoca, e sono contento che ci sia lui (e non qualcun altro) alla guida del Bologna. Voglio dire: è logico che mi piacerebbe ancora vivere ai tempi di Renato Dall’Ara, uno che faceva il calciomercato scontrandosi contro Agnelli, Moratti padre o Achille Lauro, ma sono anche passati sessant’anni da quell’epoca… La dirigenza canadese attuale, da questo punto di vista, mi ha reso un “quiet fan”, un tifoso tranquillo.

Prima eri più ultrà?

Facevo il mio. Nella stagione 2013/2014, quando il Bologna stava retrocedendo in B e fallendo allo stesso tempo, siamo andati in duemila sotto casa del presidente d’allora (l’imprenditore Albano Guaraldi. NDR) a far sentire la voce della curva. In seguito c’è stata la cordata guidata da Joe Tacopina che ci ha portato a Joey Saputo e ad un ritorno stabile in serie A. Sai, sempre adottando metodi civili e nei limiti della legge, è questo che un vero tifoso di calcio dovrebbe fare. Protestare nella maniera giusta. Non stare a sputare continuamente veleno sui social.

Un “in bocca al lupo” a Roberto Mancini, che proprio nel Bologna ha esordito da professionista, vogliamo farlo in vista degli Europei?

Certamente. Sono sempre stato affezionato al Mancini giocatore. Magari ora che è CT non amerà sentirselo ripetere, ma mi piaceva quella sua testa calda, quel suo carattere tosto, quella grinta selvaggia che sfoggiava in maglietta e calzoncini. In Nazionale ha riportato Roberto Soriano dopo ben cinque anni e ha fatto esordire Riccardo Orsolini. Quindi un po’ di sangue felsineo continua a scorrergli nelle vene.

 

Nell’Italia di Mancini gioca anche il romanista Lorenzo Pellegrini che è omonimo di un personaggio di fantasia comparso in ben tre dei tuoi romanzi (L’inattesa piega degli eventi, La nostra guerra e Lorenzo Pellegrini e le donne). Una coincidenza dai contorni quasi assurdi…

Assolutamente sì visto che quando scrissi ‘L’inaspettata piega degli eventi’ (2008) il vero Lorenzo Pellegrini aveva 12 anni… Però in letteratura a volte certe cose succedono. Ne ‘Il matrimonio di mio fratello’ che uscì nell’autunno del 2015 c’era un personaggio che meditava di scalare il Nanga Parbat durante la stagione invernale. Una impresa apparentemente impossibile, il vero e unico Santo Graal dell’alpinismo moderno. E che mi combina Simone Moro giusto qualche mese dopo? Scala quella vetta. E per giunta pure d’inverno!

Jack Frusciante è uscito dal gruppo, il romanzo del 1994 per il quale verrai ricordato per sempre, arrivò in libreria a trent’anni esatti dall’ultimo scudetto bolognese…

E io sono del 1974, anno dell’ultima Coppa Italia vinta dal Bologna FC, quella sollevata dal compianto Bulgarelli. Sono casualità, ok, ma potremmo anche farci notte…

 

Torniamo al tuo mestiere: tu, da romanziere con già 27 anni di carriera alle spalle, che ne pensi dell’attuale storytelling sportivo? Di tutti questi giornalisti che un bel giorno mollano la cronaca e si mettono a romanzare su Maradona, George Best o El Trinche Carlovich…

Guarda, lo stai chiedendo ad uno che da ragazzino leggeva Gianni Brera col dizionario d’italiano a portata di mano. E si incazzava in mezzo a tutti quei termini aulici e a quei neologismi strani. Però andavo avanti a leggerlo perché Brera era unico. Qualche giorno fa sono diventato rosso in faccia perché un critico de La Stampa ha scritto che il finale di ‘Una primavera perfetta’ (finale in cui, tanto per cambiare, si corre una Milano-Sanremo) sarebbe piaciuto parecchio a gente come Brera o Gianni Mura. Per poco scoppiavo a piangere.

Insomma, quando leggi di sport, ti piacciono i maestri.

Sì. E non ti dico neanche che opinione ho dell’attuale Gazzetta, di Tuttosport o del Corriere dello Sport quando mi fanno i titoli sulle tette della wag “che fanno impazzire i social” o ricopiano il post Instagram del tal calciatore famoso immerso nella vasca idromassaggio con la moglie. Cosa vuoi dirgli? Che a quel punto il racconto sportivo è davvero sprofondato in maniera eloquente e deprimente? Tanto lo sanno già… 

Chiudendo il cerchio sul concetto di “narrazione”…

Perdonami il passatismo, ma negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta Pelè, Best o Keegan non erano materia fighetta da storytelling, ma koinè comune. Magari non li avevi mai visti giocare, ma se non conoscevi le loro gesta, be’, il calcio non potevi neanche nominarlo…

Abbandoneresti mai la stesura di un romanzo per metterti a scrivere la biografia di uno sportivo che ami?

In fondo mi è già successo. Nell’estate del 2014 vidi la vittoria di Vincenzo Nibali al Tour de France su di un televisore scalcinato al bar di un Bagno per famiglie, sul lungomare di Rimini. Tempo dieci minuti e mi chiama sul cellulare la Mondadori proponendomi un’idea bellissima: scrivere quella che poi sarebbe diventata ‘Di furore e lealtà’, l’autobiografia ufficiale dello Squalo.

E tu accetti al volo.

Naturalmente. Perché, sai, gli editori, sono fatti così. Vogliono che si scriva solo ed esclusivamente sugli idoli del momento. In quel caso, con Nibali, io fui fortunatissimo; ma non so quante porte aperte avrei trovato se mi fosse venuto in mente di realizzare una biografia su di un calciatore di culto di fine anni Ottanta…

Uno che ha scritto parecchio come te – compresa la storia del calcio italiano (dal 1887 al 1950) in tre volumi, la narrativa di viaggio o questo La primavera perfetta – come la prende quando gli chiedono il seguito di Jack Frusciante è uscito dal gruppo o di Bastogne? Libri importanti, decisivi, ma nati comunque nel cuore degli anni ’90…

Diciamo che, col tempo, sono diventato abbastanza laico su questo argomento. (ridacchia) Nel senso che il fan arrivo a comprenderlo, ma il giornalista mainstream che mi fa il titolo strillato su Jack Frusciante quando il 90% dell’intervista verte su ‘La primavera perfetta’, be’, quello no. Mi sembra poco creativo, tutto qui.

In fondo, se vogliamo dircela tutta, anche i Red Hot Chili Peppers saranno costretti a suonare Under the bridge o Scar tissue per tutta la vita…

Già. Oppure i Rolling Stones quando riempono le scalette dei loro concerti solo di vecchi classici. Nel caso del mio bestseller del ’94 comprendo perfettamente la potenza di quel biglietto da visita: “Brizzi? Ah sì, quello di Jack Frusciante, non esattamente uno sconosciuto. Sentiamo un po’ che c’ha da dire stavolta.”. Nei mass media, purtroppo, funziona così. Ma, credimi, il sanguinare sui libri resta un altro paio di maniche.

 

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