Coppa di Superlega

La finale di domenica a Wembley fra Manchester City e Tottenham fa riflettere sulle novità nella storia del calcio. Con gli inglesi sempre motori del cambiamento, per motivi anche commerciali...

23 Aprile 2021 di Roberto Gotta

Coppa di Lega

Superlega? No, quasi. Troppi impegni, poca qualità, necessità di incrementare gli introiti e ridurre il numero di partite prive di significato? Quasi. In una storia che parte da lontano, e che in alcuni momenti fa impressione. È il 1957 e Alan Hardaker è appena diventato segretario della Football League – la lega inglese, comprendente le 92 squadre delle prime quattro serie – dopo una curiosa attesa di quasi sei anni dal momento della nomina a quello dell’effettiva presa di possesso del ruolo, perché il predecessore, Fred Howarth, semplicemente, non se n’è voluto andare nonostante la fine mandato.

In quel periodo ha studiato e valutato, e vuole una riforma. A suo avviso, ma non solo, il calcio inglese è malato: troppe 22 squadre in First e Second Division (le attuali Premier League e Championship) e 24 in Third Division North e South, suddivisione geografica nata per limitare le trasferte dei club meno ricchi nel periodo post-bellico e che solo nel 1958 porta alla costituzione della Fourth Division. Troppe squadre e dunque troppe partite senza significato, verso fine stagione. Con un forte calo di spettatori, iniziato a metà decennio dopo la comprensibile esplosione di presenze seguita alla Seconda Guerra Mondiale, quando il calcio era stato visto come uno degli strumenti della rinascita di una nazione vincitrice ma in gravissime difficoltà.

Hardaker, classe 1912, la guerra l’ha fatta e come tanti della sua involontariamente benemerita generazione ha un atteggiamento binario: da un lato non tollera piagnistei e vittimismi – sarebbe stato divertente vederlo alle prese con certi attivisti odierni – e dunque non vuole farsi piegare dalla frenesia dei club, e dall’altro comprende in pieno la necessità di offrire alla gente uno spettacolo e un diversivo che possano competere con cinema, concerti, teatri, rilanciatisi anch’essi dopo il disastro del periodo tra 1939 e 1945.

La sua proposta è di portare a 20 il numero di squadre di ciascun campionato, aggiungendone uno, per un totale dunque di 100. Per equilibrare gli incassi in meno – 19 partite in casa invece di 21 per i club di prima e seconda, invece di 23 per gli altri – propone la creazione di una nuova coppa, da giocarsi in infrasettimanale: la Coppa di Lega. I club mangiano la foglia ma solo nelle parti migliori: rigettano in votazione la riforma dei campionati ma accettano la coppa, anche se con maggioranza scarna. Solo loro, però: i media criticano la novità, ritenuta inutile, e persino alcuni grandi club si rifiutano di partecipare.

Particolarmente critico il Times, nell’edizione di lunedì 30 maggio 1960, dunque a stagione ormai conclusa: «In un momento in cui serve una drastica riduzione delle squadre e delle partite, per alzare la qualità, puntare invece sulla quantità farà aumentare la mediocrità. In un momento in cui uomini come Santiago Bernabeu, persona di larghi orizzonti, pensano ad un futuro in termini di campionato europeo di club e i nostri leader potrebbero affiancarlo nella visione programmatica, la Football League propone invece per l’anno prossimo la inutile Coppa di Lega, da giocarsi in infrasettimanale. Così non si va da nessuna parte». Suona familiare, anche se a termini inversi?

Hardaker tira dritto, e pur con una personalità soverchiante, a volte prepotente e fin troppo diretta, riconosce che l’idea della nuova coppa non è comunque sua ma di Stanley Rous, segretario della Football Association e futuro presidente della FIFA, che l’ha inclusa in un progetto di largo respiro per la ricostruzione del calcio nel periodo post-bellico, anche se per Rous doveva semplicemente essere un torneo per club eliminati nei primi turni di FA Cup. C’era poi già l’esempio della Coppa di Lega scozzese, dal 1946.

Riforme di oltre 60 anni fa, insomma, a testimoniare che il calcio e lo sport in generale spesso vengono visti come blocco pluridecennale monolitico solo a posteriori, e le parole del Times lo dimostrano. Protagonisti della protesta maggiore verso la Superlega, gli inglesi in realtà sono sempre stati quelli che hanno innovato di più e prima, forti di una spinta commerciale che è parte della mentalità britannica e che non casualmente è poi stata trapiantata nella società americana, quando l’elemento anglosassone era predominante.

La finale di Coppa di Lega, che stavolta vede come avversario del Manchester City il Tottenham, corre ogni anno il pericolo di essere l’ultima proprio perché la spinta al cambiamento è costante, e l’aumento di impegni a livello internazionale – Superlega o l’allargata Champions League che sia – fa urlare all’ubi maior. Già la FA Cup viene affrontata con relativa serietà da molti club, figuriamoci la Coppa di Lega, che peraltro da anni garantisce un posto in Europa League… a sua volta competizione che non da tutti è presa con la professionalità che ci vorrebbe.

Si torna alle origini della coppa, allora, con quella storia dei maggiori club che si tirano indietro, ritenendola superflua. La prima edizione, 1960-61, ad esempio non vede tra le partecipanti il Tottenham, l’Arsenal e il Wolverhampton, e a causa della frequenza degli impegni le due finaliste, Aston Villa – all’epoca peraltro club più vittorioso nella storia del calcio inglese – e il Rotherham United, seconda divisione, giocano solo tra agosto e settembre del 1961. Nel 1962 va ancora peggio sul piano promozionale: oltre alla bassa affluenza di pubblico, i risultati portano in finale Rochdale e Norwich, rispettivamente quarta e seconda divisione, senza che gli anni successivi portino momenti rilevanti.

Tutto cambia nel 1967, quando si realizzano un progetto e una profezia: il progetto è quello di Hardaker di far assegnare dalla Uefa, alla vincitrice del trofeo, quel posto in Coppa, la profezia è quella di Joe Richards, presidente della Football League, di una finale a Wembley, anche se era sbagliata la seconda parte dell’auspicio, visto che Richards aveva detto «non so se sarò ancora vivo quando accadrà» e invece vivo lo era ancora, nel 1967, anche se per poco (scomparve l’anno dopo). Wembley vuole dire oltre 90.000 spettatori per qualsiasi finale, a prescindere, perché andare a Wembley all’epoca è segno di un traguardo raggiunto, esclusivo, unico, ed è anche per questo che ci sono state poi molte resistenze quando la FA ha deciso di tenervi anche le semifinali della propria coppa: veniva a svanire il merito, veniva a decadere la sensazione particolare di essere in quello stadio perché eri in finale.

Caso volle che la prima vincitrice nello stadio imperiale, il QPR, in Coppa delle Fiere/Uefa non ci sia poi andata perché era squadra di seconda divisione, e medesima sorte toccò alla sorprendente trionfatrice del 1969, lo Swindon Town che era addirittura di terza serie e batté ai supplementari un Arsenal che di lì a due anni avrebbe vinto Coppa d’Inghilterra e campionato. Il periodo migliore della League Cup, insomma, anche se c’erano ancora resistenze: all’edizione vinta dallo Swindon Town ad esempio non partecipò il Manchester United e lo stesso fece nel 1970-71 l’Everton, che voleva concentrarsi sulla Coppa dei Campioni. Altro segnale, allora: la storia si ripete, il cambiamento spesso travalica i tempi e si ripropone, in forme diverse.

I fasti della Coppa di Lega sono obiettivamente passati: le finali migliori – non è lamentela di nostalgici ma dato di fatto – sono state quelle tra metà anni Settanta e anni Novanta, spesso utilizzate come rampa di lancio o coronamento di altro. La vittoria sul Liverpool nella finale del 1978 rappresentò il primo trofeo per il Nottingham Forest di Brian Clough, mentre lo stesso Liverpool vinse la coppa per la prima volta solo nel 1981, quando già aveva conquistato tutto in patria e all’estero, e presoci gusto se la tenne per altri tre anni. Un po’ come il Manchester City, che la vince ininterrottamente dal 2017, e ci ritorna. Se non altro, in una settimana di cliché, demagogia e acrimonie, la decisione del Tottenham di licenziare José Mourinho ci ha evitato la retorica dell’ennesima sfida con Pep Guardiola.

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