Cialtroni istituzionali

4 Agosto 2011 di Simone Basso

 di Simone Basso
La grandezza di ‘This is Spinal Tap’, primo mockumentary nella storia del cinema. Sensazionale nel mettere in ridicolo le liturgie del rock e di qualsiasi ambiente artistico che diventi sistema…

“A wop bop a loo bop a lop bam boom”.
Little Richard “Tutti frutti” (1955)

A grande richiesta, per mettere i puntini sulle i, celebriamo la grandezza intonsa di un piccolo film che ha generato un culto vivaddio intelligente: mica i Legionari di Cristo, il Grande Oriente o il Real Madrid. Quando uscì, nel 1984, ebbe poco successo; forse perchè si tratta, ancor di più dello “Zelig” di Woody Allen, del primo mockumentary nella storia del cinema. “This is Spinal Tap” racconta vita, morte e miracoli di un combo di veterani britannici del rock’n’roll; mestieranti passati attraverso innumerevoli ere geologiche del genere che sprofondano, piano piano, verso il declino irreversibile della loro carriera.
La narrazione, in quanto totalmente falsa, ha vette di veridicità assoluta:
i tre attori principali, bravissimi, sono americani ma sfoderano un meraviglioso accento inglese; il regista (Rob Reiner) è geniale nel mescolare e confondere linguaggio ed estetica del lungometraggio. Sensazionale nel ritrarre la cialtronaggine non solo del rock ma di qualsiasi ambiente artistico che, istituzionalizzandosi, diventa sistema, ha quasi una funzione terapeutica nel ridicolizzare la liturgia.
E’ una sfilata preziosa dei luoghi comuni di un rito, nato per scuotere e spaventare le (in) coscienze, ma trasformatosi progressivamente in una parodia di se stesso.
Si parteggia romanticamente per la band, tragicomica nel rappresentare il celeberrimo vaso di coccio in mezzo ai tanti di ferro. Ecco allora il manager despota e ladro, le angherie della casa discografica e la falsità conclamata, evidente, nel rapporto tra musicisti mediato, dopo la purezza degli esordi, unicamente dal fattore economico.
Alcune sequenze, indimenticabili, sono micidiali.
Per non rovinarvi la fruizione ne accenniamo un paio: l’irripetibile saga di “Stonehenge (“..We’ll go back in time to that mystic land, where the dew drops cry and the cats meow..”) e il frammento Buster Keaton con il gruppo che si perde nel retropalco.
Hello Cleveland!” Una risata disseppellisce tutti i luoghi comuni: il maledettismo, i batteristi che muoiono come mosche (magari soffocati dal vomito di un altro…), le frasi fatte e gli strafatti. I tre protagonisti della vicenda, poetici, sono gli unici che, malgrado tutto, continuano a crederci; ma al termine del viaggio, invece che Caronte o uno scioglimento inglorioso, li attende una reunion trionfale in Giappone.
I Tap ammazzano sul serio gli idoli e lo fanno utilizzando l’immaginario e le paccottaglie della musica pop “bianca” più pura, il blues dei figli del ceto medio, ovvero l’heavy metal.
Che si presta magnificamente perchè sempre in bilico tra il sublime e il ridicolo; sottoprodotto autentico della cultura giovanile, rifferama che privilegia la fisicità e l’istinto al pensiero e al cosiddetto impegno sociale.
Trattasi infatti, al pari dell’altra realtà brutta, sporca e cattiva (la black music), dell’universo meno ipocrita: trovate più ridicoli un gruppaccio norvegese di metallo estremo che inneggia a Satana o gli U2? Rockstar che sbandierano ai quattro venti le loro iniziative politiche, barzellette viventi, stramilionarie e con le fortune finanziarie al sicuro in un paradiso fiscale…
L’umorismo sofisticato di Christopher Guest e soci, maniacale nel seminare riferimenti agli eroi dei Settanta, riporta invece il rock alla sua dimensione più vera, quella cazzara e infantile.
Perchè, come affermò Brian May in un’intervista, il rock’n’roll è il tentativo più riuscito di prolungare all’infinito l’adolescenza delle persone. A metà tra i Monty Phyton e il situazionismo in quattro quarti, gli Spinal Tap hanno mostrato la via: le citazioni in questi anni si sono sprecate, al pari delle leggende metropolitane che ricostruiscono gli ispiratori degli sketch più gustosi. Se in Inghilterra, con la partecipazione decisiva del duo Mayall-Edmondson, i Bad News hanno provato (con indubbia efficacia) a ricalcarne le gesta, una segnalazione doverosa è a “Fear of a black hat”, corrispettivo hip hop del documentario di Marty DiBergi (sic). Ma loro, The Big Three, rimangono inarrivabili: si sono pure riformati temporaneamente (?) scrivendo anthem deliziosi, hanno dato vita a un tour mastodontico di una sola data e rilasciano interviste zeppe di buon senso. Aiutati dall’amplificazione generosa, che si spinge fino a undici (…), e da un talento adamantino: “Smell the glove”, la cui copertina fu plagiata dall’ensamble più cinico e intelligente del metal anni Ottanta, è un gran bel disco…

Simone Basso
(22 luglio 2011, in esclusiva per Indiscreto)

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