Anema e hardcore

30 Luglio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Era l’anno simbolo di tutte le fobie dei movimenti post-punk, il 1984, e le cose non sarebbero state mai più le stesse. Ci fu un disco, suo malgrado, che fotografò alla perfezione il momento. Un’istantanea vagamente mossa: una Polaroid a colori di uno scarto, una vertigine, nella percezione del mondo esterno ormai alieno a dinamiche realmente umane. Gli Hüsker Dü colsero l’attimo e lo trasferirono su un vinile doppio firmato SST. Amarcord, gli Ottanta come ultimo (e unico?) decennio di libertà creativa nella cultura giovanile. La possibilità inebriante della costruzione di un pianeta parallelo a quello ufficiale. Ecco allora, ad Occidente, una pulsazione che coinvolse un paio di (de)generazioni; basterebbe snocciolare il bill dell’etichetta indipendente di Greg Ginn per spiegarlo in maniera efficace: oltre al combo di Saint Paul, Black Flag, Minutemen, Sonic Youth, Meat Puppets, Dinosaur Jr, Bad Brains. Musica differente per menti espanse, totalmente estranee al mainstream di allora che, grazie alla globalizzazione e a Mtv, si stava diffondendo nel mcworld.
Una scelta di campo, supportata dal mistral impetuoso di quei tempi: l’America nerissima del rap (la Cnn dei fratelli) e la Washington bianca della Dischord lo confermarono, così come l’uragano thrash che si diffuse dalla Bay Area fino alla Ruhr. In Belgio presero ad iniettare veleno per topi nelle strutture rassicuranti della dance e della wave, il new beat, e in giro per il Vecchio Continente si diffuse il virus apocalittico della cultura industriale. Si concluse finalmente l’utopia (o l’aberrazione) dell’individuo che prova a modificare e migliorare il sistema facendone parte, ‘Zen arcade’ è la colonna sonora perfetta di una scelta di vita, del risveglio da un incubo che venne venduto come un sogno. E’ una fuga dalla realtà imposta dagli impostori, il passaggio obbligatorio attraverso il fuoco della consapevolezza che porta, dopo il dolore, alla verità. Un viaggio senza biglietto di ritorno, un ‘Easy rider’ senza cazzate hippie che sfruttò l’apice creativo di una band colta in piena trasformazione sonora: dall’hardcore punk yankee in qualcosa d’altro, sicuramente meno catalogabile, più fantasioso, e altrettanto dirompente.
Molte testimonianze di quel periodo, con lo scorrere inesorabile della sabbia nella clessidra, sono invecchiate male. Questo album, soprattutto la seconda parte, mantiene intatta l’espressività, miracolosa, dei grandi classici.
Eppure suonavano ancora con l’urgenza e la rabbia sguaiata del cacofonico ‘Land speed record’, pur scrutando altri orizzonti artistici molto meno claustrofobici. Produssero, in serie, acquarelli ipnotici, virulenti, in un muro sonoro di fuzz: ‘Something I learned today’, ‘I’ll never forget you’ (una meraviglia quella furia di riff), ‘The biggest lie’. Nei Novanta prenderanno come esempio questa manciata di canzoni potenti e sbilenche per farne un nuovo trend.
Scelsero produttori in gamba per abbellirne le strutture armoniche, si inventarono un brand vacuo per supportarlo (“Grunge? Avranno chiesto una definizione alla musica a un tizio e questo se ne sarà uscito pronunciando malissimo la parola garage…”, disse Bob Mould) e la imposero in heavy rotation su Mtv e nelle radio. Il trio sfolgora, incanta, quando va oltre con la propria immaginazione fervida e perfida. In ‘What’s going on’ c’è già la Gioventù Sonica di ‘Daydream nation’, ‘Masochism world’ coniuga il rumore con la sperimentazione pop, ‘Standing by the sea’ è un mistero che scorre tra il fango del feedback e il liquido amniotico di una melodia agrodolce. ‘Somewhere’, ‘Pink turns to blue’, ‘Whatever’, dalla poetica straniante, stabiliscono la nascita della nuova canzone americana d’autore. C’è l’urgenza di dire qualcosa anche nelle finestre ambientali (‘One step at a time, ‘Monday will never be the same’, ‘The tooth fairy and the princess’), minimaliste, oniriche e minacciose. E quante volte Kurt Cobain avrà ascoltato il combat-shoegazing della tuonante ‘Turn on the news’? Tutto sfocia, si materializza, nei quasi quattordici minuti di catarsi estrema di ‘Recourring dreams’: ci si spoglia anche della pelle e si vola via, definitivamente.
Come scrisse Elias Canetti: “Tutte le cose che uno ha dimenticato implorano aiuto nei sogni.”

Curioso che le suggestioni siano così sixties, ovvero l’hard rock meno compromesso con l’airplay e la psichedelia più brutale. ‘Zen arcade’, senza assolutamente saperlo, concluse un’era e ne aprì un’altra. Vendette centomila copie negli Stati Uniti, un’enormità per il semianonimato del genere ma anche lo specchio di quanto potenziale (anche economico) avesse quella scena vergine e alternativa. I profetici e gloriosi Hüsker Dü vissero pericolosamente on the road per altre tre stagioni, poi differenze musicali inconciliabili e la tossicodipendenza di Grant Hart portarono all’esaurimento della loro esperienza collettiva. In pochi anni contribuirono come nessuno all’edificazione di un’altra prospettiva del sound guitar-oriented americano, liberandolo dai suoi stereotipi. Rimangono la stella polare indie, mai abbastanza cantati, degli Eighties. Il loro vigore emotivoresta una certezza immarcescibile del decennio ed è bello ricordarlo (con quel nome, poi…) in questi giorni. Popolati magari da mummie milionarie, reduci degli Ottanta che svernano allegramente chiedendo 250 euro a cranio (evidentemente disabitato) per qualche ora di esibizione annoiata. Dopotutto, è’ bello considerare ancora l’arte e la dignità più importanti dei dischi venduti e del marketing.

Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)
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