Ancora con l’Ottantadue

9 Aprile 2008 di Stefano Olivari


Perché il Mondiale 1982 è qualcosa che nemmeno il trionfo in Germania ha spazzato via dall’immaginario collettivo? Perché eravamo tutti più giovani, sicuramente, ma forse anche perché le vittorie che restano nella memoria storica di un popolo non sono tutte quelle con coppa alzata, ma solo quelle che segnano una svolta, un passaggio, un riscatto. Pensieri profondi, che ci sono tornati alla mente ascoltando il discorso elettorale di Walter Veltroni a Crotone, durante il quale il leader del centrosinistra (sì, non si chiama più così) ha paragonato il Partito Democratico all’Italia del 1982, raccontando di avere ricevuto qualche tempo fa una telefonata di incoraggiamento nientemeno che da Enzo Bearzot, e più di recente a Matera la visita di Franco Selvaggi, lo Spadino che fu convocato per non mettere pressione a Paolo Rossi (con Roberto Pruzzo, capocannoniere della serie A per la seconda volta consecutiva, lasciato a casa). Missione compiuta, con zero presenze. Veltroni voleva far intuire una rimonta del PD nei sondaggi, mentre al di là delle battute su Ronaldinho e sul figliol prodigo Shevchenko, le metafore calcistiche di Berlusconi nemmeno si contano più. Ma perchè torniamo sempre a quel successo? Arrivato dopo due cicli mondiali in cui i nostri club, Juventus a parte, in Europa non andavano mai oltre i primi turni delle tre coppe (in particolare, nel 1981-82, nessuno arrivò ai quarti), dopo un decennio politico di terrorismo ed uno economico di austerità. Due anni fa l’Italia di Lippi arrivava sì da Calciopoli, ma era anche formata da giocatori consapevoli della propria forza. Forza certificata da Champions League e riconoscimenti di ogni tipo, superiore anche alla cattiva congiuntura in attacco con Totti convalescente e uomini-gol senza ispirazione schillaciana. Non si può spiegare il culto del 1982, che ha anche abissi retorici insopportabili (siamo gli unici a non riuscire più a guardare Sfide?), con l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico, la Polonia di Boniek (peraltro in semifinale senza Boniek) e la Germania Ovest di Rummenigge, come se Shevchenko, Ballack e Zidane fossero mediaticamente delle comparse. Eppure è spesso così che si fa, in linea con la poetica del calcio di una volta che era sempre meglio. Ripensandoci, nel 1982 avevamo tutti più fame di grande calcio ancora più che di grandi vittorie: non ci ricordiamo un solo bambino della generazione Subbuteo che tifasse contro l’Italia, mentre ne abbiamo visti troppi (per tacere degli adulti) della generazione Playstation che ragionavano per milanismi, romanismi, interismi, eccetera. I po-po-po hanno funzionato al momento, poi ci è rimasta un’Italia senza fame (di calcio, almeno) e senza futuro.

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