I tre draft che hanno cambiato la storia

24 Giugno 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Quando un sistema funziona realmente tende ad evolversi in continuazione: la fotografia mossa di un soggetto è indice della sua vitalità fisiologica. Sternville, all’alba di decisioni che ne muteranno il paesaggio futuro (soprattutto quello economico), continua a basarsi su una serie di variabili impazzite che ne decretano l’attrattiva e la credibilità. In attesa di un hard cap, l’Eldorado legislativo di un mondo basato sulla veridicità dei contratti, celebriamo la grandezza di un altro pilastro dello sport americano: le scelte, ovvero il meccanismo virtuoso che rimescola le carte vincenti di una stagione.
Rito di un fascino sconosciuto a noi europei, rassegnati orwellianamente a dinamiche secolari di potere egemonico, con le campagne acquisti (nel foot e nel basket della devozione) che tendono a rafforzare comicamente chi è già fortissimo e a svuotare arsenali e granai dei meno abbienti.
Trattare il draft come una scienza è una trappola per topi; la bellezza dell’evento risiede nell’imponderabilità di quei nomi scanditi dal commissioner: le scelte Nba, microcosmo di vicende assurde e bizzarre, hanno più a che fare con l’alchimia di Tommaso d’Aquino e la ricerca della pietra filosofale perfetta. Per non cadere negli stereotipi tremonteschi dei profeti del dì dopo, abbandoniamo qualsiasi pretesa di analizzare la fiera dell’edizione 2010: molto meglio ricordare alcuni momenti che modificarono, per sempre, la storia del basket pro.
Tre draft costituirono una miniera d’oro per tre dinastie: minimo comune denominatore l’istinto, la buona sorte e il genio di chi mosse le pedine giuste.
I Lakers del back-to-back odierno nacquero nell’estate 1996; il burattinaio, Jerry West, potremmo eleggerlo come il più grande giemme di sempre se non fosse stato anche, tanto per gradire, Mister Laker con due parsec di vantaggio su tutti.
Straordinario fromboliere sul parquet, talent scout inarrivabile, rappresenta ciò che un Liedholm o un Boniperti furono per Milan e Juventus: ma al cubo… Rubò la scelta di Magic Johnson ai Jazz (1979) e, in cambio dei servigi del Don Ford “ammirato” in Italia (alla Berloni Torino), quella di Worthy ai Cavs (1982) dell’inarrivabile Ted Stepien, il peggiore proprietario di sempre: l’era rileyiana dello Showtime la concretizzò con queste magate. Nel 1989 scelse alla ventiseiesima Vlade Divac e aprì ufficialmente la lega al nuovo mondo degli atleti di provenienza Fiba: fu proprio il pivot serbo la merce adatta che convinse gli Hornets, sette anni dopo, a fare il nome di un liceale dalle movenze jordaniane. Con la tredici Charlotte, girandolo subito a Tinseltown, chiamò Kobe Bryant: West, al solito profetico nello scorgere il talento, fece di tutto per assicurarsi il figlio di Jellybean; i provini del diciassettenne di Philadelphia furono eloquenti a riguardo…La leggenda che si è affermata oggi sostiene l’inviolabilità di quel movimento: per Arn Tellem (allora procuratore del Mamba), la prospettiva del suo assistito fu o El Ei o Aventino. La verità fu che ben tredici franchigie ebbero paura ad investire soldi in un bambino della high school, addirittura (al contrario del Kevin Garnett dell’anno prima) nel ruolo di guardia; ai tempi ricordiamo tutti lo stupore del suo annuncio del contratto stipulato con l’Adidas, qualche settimana prima del draft. Mister Clutch completò l’opera con Derek Fisher, alla ventiquattro, in un capolavoro che si sarebbe tramutato in cinque anelli. And counting.
A lenire la stupidità degli executive che indugiarono su Potapenko e Fuller la qualità complessiva di quelle selezioni: Allen Iverson, Marcus Camby, Shareef Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker, Kerry Kittles, Peja Stojakovic, Steve Nash (alla quindici!), Jermaine O’Neal, Zydrunas Ilgauskas.
E, nemmeno scelto, da quella annata favolosa emerse anche Ben Wallace: se la gioca con l’84 (Hakeem, Air Jordan, Sir Charles, Stockton), lo zerotre (LBJ, Melo, Flash) e i ’60 delle vacanze romane (Big O, Mr Logo e Lenny Wilkens) come draft più importante di sempre. Non per noi, radical chic, che punteremmo le nostre fiches sulle uscite generose (comprendenti anche quelli dell’Aba) del 1970; quantitativamente irripetibili per impatto tecnico: Bob Lanier, Rudy T, Pistol Pete, Cowens, J. Johnson, Petrie, il Duca McMillian, Calvin Murphy, Nate Archibald, Charlie Scott, Dan Issel, Randy Smith. Fanno sette nella Casa della Gloria di Springfield e altri (che vedemmo anche nella Spaghetti League) califfi assortiti.
Jerry Krause, oggi dimenticato dai più, fu il GM che edificò i Bulls esacampioni; lo fece in una soap opera che richiederebbe lo spazio dell’Ulisse di Joyce per spiegarla. Eppure, malgrado le tensioni infinite con Jordan, Jackson e gli altri Tori, riuscì nell’impresa sfruttando anche le opportunità nei draft.
Il suo 1987 fu eccezionale: si innamorò cestisticamente di un all around semisconosciuto di Central Arkansas (a livello NAIA!) e lo protesse fino all’inevitabile scoperta della concorrenza al Portsmouth Invitational Tournament. Crumbs (soprannome coniato da un perfido MJ per sottolineare l’alimentazione disordinata del nostro) lo blindò accordandosi con Seattle che alla quinta chiamata assoluta, in cambio del riminese Olden Polynice girato dai Bulls alla otto (una barzelletta a raccontarla oggi), produsse le generalità di un certo Scott Pippen. L’uno-due si concretizzò, alla dieci, con Horace Grant; un lungo proveniente da un’università non molto chiaccherata per il basket come Clemson: in un colpo solo, Chicago ebbe i due titolari della squadra del primo threepeat, nonchè un futuro Hall of Famer, quello con il 33 sulla casacca, ed un All Star difensivo come Orazio. I due, gemelli siamesi negli anni dello svezzamento, avrebbero contribuito anche alla “Dynasty” che si sviluppò nel retrobottega di quello squadrone: fu Krause ad estromettere Doug Collins come allenatore e scegliere Phil Jackson; il resto fece la storia dell’Nba, anche quella più gossipara. D’altronde, se non esistono foto ufficiali che ritraggono assieme i quattro “responsabili” di quel regno (Jordan, Pippen, Jackson e Krause) un motivo ci dovrà pure essere…
Last but not least, il Churchill dei Celtics, l’uomo che creò l’impero biancoverde: si disse che Auerbach, per ogni anello vinto, avesse fregato almeno un paio di rivali sul mercato e nelle scelte.

I C’s che firmarono undici titoli in tredici anni furono costruiti mattone su mattone, con un lavoro chirurgico, instancabile, del patriarca bostoniano: il nucleo centrale dei campionissimi fufortissimamente voluto dal buon (..) Red. La stagione dorata arrivò in corrispondenza con tre prese stupefacenti: nel 1956 l’allora territorial draft concesse il lusso dell’enfant du pays, da Holy Cross, Tom Heinsohn. Arrivò a Bill Russell, la pietra miliare della mistica del trifoglio, cedendo due stelle come Hagan e Macauley agli Hawks: il più grande vincente della storia del basket sbarcò qualche mese dopo, proveniente dall’oro olimpico di Melbourne, ma l’attesa fu ripagata immediatamente. Il 13 aprile 1957, in una tremenda gara7 al Garden proprio contro St. Louis, Boston si aggiudicò il primo titolo della serie infinita: dopo due supplementari, Heinsohn (37 punti, 23 rimbalzi) e Russell (19+32) permisero ad Auerbach l’accensione del famoso sigaro. Per sovrammercato, il terzo pick di Beantown nel 1956 li avrebbe raggiunti due anni più tardi: il compare di Russell a USF K. C. Jones, perplesso dall’Nfl e dopo due anni di esercito, si aggiunse alla Gang Green e ne rafforzò l’aurea d’imbattibilità.
Nessun altro, in un singolo draft, pescherà più tre giocatori da Hall of Fame in un colpo solo.
Gioie e dolori possono coabitare magnificamente come in un film di Kurosawa: lo spunto verde ci riporta al 1986 e alla selezione che concluse ogni illusione sull’etica dell’Ncaa.
Mai, nel percorso minato dello scouting, ci furono così tanti fuoriclasse potenziali accompagnati da problemi drammatici e certi. La seconda scelta assoluta dei

Celtics, il Len Bias che avrebbe permesso il procastinarsi dell’epopea Bird, morì di overdose festeggiando il suo ingresso trionfale nella pallacanestro strapagata: fu l’epitaffio di un’annata dannata, zeppa di devianti con prospettive da All Star Game. Due super affondarono impietosamente le squadre che li scelsero: un genio bulimico, John Sam Williams, rovinò i Bullets; uno alcolizzato e tossico, Roy Tarpley, distrusse i Mavs. Chris Washburn e William Bedford, lunghi di eccellente fattura, divennero inabili al gioco causa l’abuso di droghe pesanti; All America come Walter Berry e Pearl Washington non si adattarono mai a Sternville e fallirono clamorosamente.
Anche il numero uno, Brad Daugherty (point center ante litteram), dopo otto anni di ottime prestazioni si dovette ritirare per problemi cronici alla schiena. La fatwa raggiunse anche i due semidei scelti in Europa, Arvidas Sabonis e Drazen Petrovic: il primo pagò una serie di infortuni al tendine d’Achille; il secondo (ormai una stella Nba) morì in circostanze incredibili, in un incidente automobilistico, nel 1993. Tutto sommato, l’esponente più fortunato di quella stagione fu Dennis Rodman: uno che, tra una corona di caporimbalzista e l’altra, avrebbe fatto ammattire Madre Teresa di Calcutta in persona.
Il caleidoscopio della serata magica si è modificato nei decenni: nei Sessanta alcuni dirigenti erano ancora alle impressioni di una partita vista per sbaglio, oggi siamo alla Nasa e all’Fbi interpellati per analizzare meglio uno swingman della Louisiana.
Abbiamo nostalgia per le americanate più kaufmaniane degli anni ruggenti, come l’ottavo o il nono giro riempiti di nomi assurdi, magari inventati di sana pianta. Rimane un circo talvolta inspiegabile, leggibile solamente da uno Jung ispirato: i Blazers che preferirono, nel 1972, l’osceno LaRue Martin a Bob McAdoo son gli stessi che consegnarono le chiavi della suite a big men dominanti (Bill Walton) ma rotti (Greg Oden) e che magari impedirono la scelta di un Michael Jordan (Sam Bowie). I Clippers, che sono i Clippers anche per quello, sono sempre riusciti a combinare disastri efferati; beccarono fenomeni che si infortunarono dopo poche partite (Danny Manning nel 1988) oppure investirono su corpi privi di fondamento (l’Olowokandi 1998). Quanto all’amletico Blake Griffin, ultima primissima scelta di Sterlingland, vorremmo almeno vederlo una volta sul campo…
Il segreto impossibile del draft sta tutto nella distanza siderale tra il faraone Narmer e un semente qualsiasi.
Perchè tra Tim Duncan e Kwame Brown c’è la differenza che passa tra una parata per le strade cittadine a giugno e le pernacchie della seconda fila ad Aprile, anche se sei stato il più grande giocatore di tutti i tempi. “With the first pick in the 2010 Nba draft the Pittsburgh Pisces select…”
Simone Basso

(in esclusiva per Indiscreto) 
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