Federer, racchetta grande e grande addio

6 Gennaio 2015 di Simone Basso

Stavolta facciamo una pazzia: invece di vivere del presente continuo che ci offre il Mondo Nuovo (gossip o poco più), proviamo ad analizzare il 2014 di Roger Federer. Un’annata storica, l’ennesima, se si approfondiscono i risultati – cause ed effetti – e il momento del tennis pro. Perchè nell’era Open, dal 1974 in poi, nessun trentatreenne aveva mostrato queste performance, qualitative e quantitative. E se consideriamo che è pure lo stesso soggetto che, all’apice (dai 23 ai 26), ha dominato il circuito come nessuno prima (e dopo) di lui… La nostra non è nemmeno una disquisizione sul dibattito, sterile, del cosiddetto GOAT; questione che non ci appassiona affatto.

Rogerio allora, che nel 2013 visse un annus horribilis: la schiena che si infortunò a Indian Wells, contro Dodig, e l’estate terribile, roba da Viale del Tramonto col basilese nei panni di Gloria Swanson. Eppure Federer, ascoltando i segnali del proprio corpo, aveva già cominciato (da due stagioni) a studiare con la Wilson un nuovo prototipo: che, per l’occasione, ne ha sfornati centoventisette da testare… Una racchetta con un ovale più grande, che consenta un margine maggiore nei colpi, soprattutto un rovescio più sicuro. I piedi alla Baryshnikov, quelli del quadriennio d’oro (2004-07), avevano perso l’agilità felina dello zenith.

Il consiglio era stato di un altro Grandissimo, Pete Sampras, oggi convinto che – con l’adozione almeno della Pro Staff 90 – avrebbe perso meno nell’epilogo di carriera. Così Roger, l’ultimo dei mohicani, abbandonava la racchetta di metallo della prima generazione per impugnarne una da 97 pollici quadrati. Tensione delle corde da 22 chili a 25 (o 26) con la classica incordatura, degna di un freak dalla manina fatata, budello verticale e luxilon orizzontale. Tutto ciò ha portato, subito, una migliore fase difensiva e – contemporaneamente – più velocità alla battuta e nei colpi offensivi. I 627 aces registrati nel 2014, rispetto ai 399 di dodici mesi orsono, certificano l’efficienza ritrovata. Il resto non è mancia, ma è nella gerla del Mago Merlino. Che è ripartito da chi ammirava da bimbo per ritornare vincente.

Ci voleva Edberg per convincere il Re pigro a riutilizzare l’arsenale completo. Non che non ci avesse provato Annacone (il fine 2011 fu emblematico), ma Stefan – da campione a campione – ha toccato gli ingranaggi giusti. Il Federer de luxe ammirato riprende difatti le sue origini, quando applicava verticalizzazioni classiche in un’Atp non ancora omologata. Roger divenne (quasi) imbattibile adattandosi al nuovo standard, arretrando piano piano il baricentro: giocando a specchio con gli avversari e imponendo loro un pattern monodico quanto straordinario. Serve and forehand, ragnatele difensive e improvvisazioni figlie di un talento unico. Le cifre di quel periodo furono eloquenti: 74 vittorie e 6 sconfitte nel 2004, diciotto top ten battuti, l’incredibile 81-4 del 2005 e l’altrettanto stupefacente 92-5 (!) dell’anno seguente (diciannove Primi Dieci abbattuti..) che gli permise di chiudere il 2006 con uno scarto rispetto alla concorrenza – nelle classifiche – mai verificatosi.
Da lì in poi, malgrado i titoli e i primati accumulati, Federer vinse con uno stile meno scintillante. Saremmo tentati di affermare che certi trionfi Slam (e non solo i suoi) perdano qualità rispetto al passato recente.

Il Mago Merlino 2014 invece, seppur senza major all’attivo, strabilia. I confronti con altri ras, a pari età, sono improbabili: Agassi nel 2003, quando si impose a Melbourne, ebbe un tabellone ridicolo. Un Cinquecento di oggi. Federer, al netto di una continuità clamorosa, ha pescato molte volte la pagliuzza più corta. A cominciare down under, con Murray nei quarti e Nadal nella semi. La prima ora dell’incontro con la sua nemesi spagnola è stata straordinaria: Roger era finalmente un metro e mezzo avanti rispetto a qualche mese prima, aggredendo avversario e partita. Ci volle il miglior Rafa dell’annata per respingerlo: il manacorino, con la fase difensiva a mille, pagherà il conto – salatissimo – contro Wawrinka.

A Dubai il basilese confermò le impressioni positive, sciorinando un repertorio straordinario. Prima varia e potente, seconda competitiva e spostamenti laterali di ottimo livello. Un gioco che si reinventa all’infinito, ormai insolito e inedito per il robotennis imperante. Soluzioni sempre diverse, variazioni (Goldberg) che esaltano la fantasia e il talento balistico. Diritto vintage, sontuoso, la frustata liquida, l’inside out, il rovescio alternato in top o in back; tagli slice maligni, colpi di controbalzo (istinto puro) e doti volleatorie degne del biondino che lo allena… Solo lui, in finale a Wimbledon, sul 2/5 al quarto set, contro il miglior Djokovic di sempre, poteva inventarsi quell’attimo. Venti minuti di Aleph che avevano quasi ribaltato ogni logica, assaltando il fortino apparentemente inespugnabile del serbo.

I Fed Moments nel 2014 sono stati tanti: la semi all’All England Club, una lezione di terba a Milos Raonic, risposte anticipate, palla nelle stringhe del canadese, approcci beffardi alla rete. Il Murraycidio all’O2 Arena, al Masters, e il capolavoro in quel di Shanghai nell’ennesima sfida a ventiquattro carati con Nole. I numeri spiegano i successi: 73-12 e ben diciassette colleghi d’elite sconfitti, una cifra che lo riporta – a livello statistico – al 2007. Tutt’al più il Federerissimo doc, che toglie il tempo (e il campo) all’altro, ci fa rimpiangere le scelte tecniche del post 2007; ovvero le sue prestazioni dopo la mononucleosi del Gennaio 2008. Abbiamo un’idea: se allora avesse implementato un’altra impostazione tattica, più propositiva, e adottato un attrezzo simile alla RF 97 Autograph odierna, il numero degli Slam in carniere sarebbe oltre la fatidica quota venti.

L’immaginario del Federerismo, anche nella fase declinante, si rafforza. Il pubblico lo ama perchè capisce che uno così, la combinazione ideale tra gesti neoclassici e powertennis, non tornerà più… A meno che l’Itf e i sindacati non rivedano la politica (miope) attuata negli ultimi lustri. E’ evidente che il circo viva del Re, di Nadal e di Djokovic: senza i tre il diluvio? A Flushing Meadows, gli organizzatori avevano allestito una tribuna per ospitare gli appassionati che accorrevano agli allenamenti di Federer. Milletrecento posti sold out, anche con partite concomitanti, e la sensazione che la struttura avrebbe potuto sorpassare le duemila unità. Una sorta di rito pagano, con gli uscieri costretti a chiudere i cancelli d’accesso e qualche matto che si arrampicava sugli alberi prospicenti per osservare Rogi.

La pacchia sta per finire, le voci di corridoio raccontano di un duca di Kent che aprirà, eccezionalmente, il Centrale di Wimbledon per l’addio del nostro. Settembre 2016, in mondovisione, al pari di Pelè a New York nel 1977. L’epilogo perfetto, quello autentico, sarebbe l’ottava sinfonia nel tempio; ci pare difficile ma non impossibile, visto il Federer 2014. Dovremmo aggiungere che non ci è piaciuta la manfrina ITPL, le esibizioni milionarie che potrebbero peggiorare la discopatia lombare, frutto di quindici anni di battaglie. Il suo piano è di saldare il finale di stagione con l’incipit del 2015, l’Australia, per staccare – prima riposarsi e poi ricominciare coi carichi di lavoro- tra Febbraio e Marzo.

Pubblicato il 24 Dicembre 2014 da Il Giornale del Popolo

 

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