Zitti e Mutai

19 Aprile 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
Un’edizione della maratona di Boston vicina sia alla tradizione che alla fanta-atletica, con un record del mondo che non sarà omologato ma che fa già parlare del muro delle due ore. Il resto sono considerazioni razziali, per non dire razziste…

Centoquindici anni senza rughe da lifting. Il 18 Aprile 2011 non è un giorno qualsiasi nella storia della Maratona: in attesa di altri, in quel di Boston si straripa nel futuro. Sono i 42 e 195 più vicini al mito dell’atletica mondiale, un percorso d’iniziazione (il più antico della storia) che sembra gettare un ponte tra l’America e il resto del mondo. Il passato prossimo con il futuro anteriore. Un tentativo riuscito di coniugare popolarità e rango nobiliare che nel Bel Paese, ahinoi, ignoriamo per mancanza di cultura. La svendiamo come una salutare scampagnata per bisonti e una vetrina per vippame assortito: la Maratona è invece altro. Si regge su un equilibrio instabile, imperfetto, che pare esigere, dal personale a ventiquattro carati, la prestazione assoluta. Il lunedì dei Patrioti è stato tutto ed il contrario di tutto: classico nell’affrontare i suoi luoghi sacri, Wellesley e la Collina Spaccacuore, nello sguardo ingenuo ed entusiasta di un pubblico festante. Post-moderno nello scenario dipinto dagli atleti, in una mattinata ideale per temperatura e condizioni atmosferiche (il vento a favore).
La vernice spettacolare è stata offerta dalle donne.
Una competizione serrata che si è risolta con un testa a testa appassionante: vince Caroline Kilel, orgoglio swahili, davanti all’irriducibile Desiree Davila. Per frantumare lo stereotipo imperante, l’americana mette in difficoltà le africane e lo fa con l’armamentario tecnico e tattico; corre benissimo, anche stilisticamente, con una falcata minimale, elegante, che stride con i movimenti ampi, esagerati, delle rivali keniane. I 2h 22′ 36″ della vincitrice sono una promessa, o una minaccia, che annuncia l’incredibile gara maschile.
Su un tracciato velenoso, che presenta (dalle parti delle Newton Hills) una serie di salitelle a dir poco cattive per i muscoli in acido lattico.
La mezza ha un panorama cyber, con la dozzina di testa che ferma il cronometro a 1h 01′ 54″. Ci si attende, a quel ritmo, una seconda parte tattica, meno folle, e invece i protagonisti raddoppiano gli sforzi. Con la partecipazione attiva dell’eroe di casa Ryan Hall, la tribù verderossonera frantuma ogni logica: l’epilogo è un tandem, Mosop e Mutai, con accelerazioni degne di un diecimila. Proprio in Copley Square la matricola Moses, segnatevi il nome, deve lasciare il passo al più esperto Geoffrey. Mutai realizza un fantascientifico 2h 03′ 02″, Mosop arriva 4 secondi dopo: distruggono il primato mondiale berlinese del grande Haile Gebrselassie (2h 03′ 59″ nel 2008). Per realizzare la portata della contesa, il terzo (l’etiope Gebremariam) fa 2h 04′ 53″ e precede di pochissimo un eccellente Hall.
Lo stupore e la meraviglia proseguono nel retrobottega: la Federazione americana, considerando Eolo oltre il limite e il profilo non conforme agli standard delle altre prove, non ratifica la prestazione.
Scoprono oggi, dopo aver omologato ogni record precedente, che il dislivello che porta da Hopkinton a Boston è oltre il metro al chilometro. Forse un escamotage suggestivo per non eccedere nelle prebende agli africani, visto il bonus garantito (…) di 50000 dollari da aggiungere ai 150000 del primo assoluto.
Rimane l’idea di aver assistito (benza super o normale) ad un’impresa leggendaria, indimenticabile. Fanno due minuti e cinquantacinque secondi ogni mille metri, qualcosa che proietta la Maratona verso il fondismo veloce e l’abbattimento del muro delle due ore. La fotografia è Kenya contro Etiopia, sempre e comunque. Una questione genetica, vagamente razzista, che potrà essere colmata dagli altri (caucasici e orientali) solamente con il lavoro e l’abitudine al mezzofondo prolungato. Restano, bellissimi e intoccabili, gli uomini e le donne degli altipiani che corrono: il Kenya esprime un movimento che a stento si può descrivere con le cifre nude. Cento (!) di loro hanno fatto registrare tempi sotto le due ore e dieci; in trecentocinquanta sfondano i due e dodici.
Sogniamo di vederli in bicicletta, sulle vette del Giro e del Tour, o impegnati sugli sci stretti in una Cinquanta a Holmenkollen. Per adesso ci accontentiamo della grazia e della potenza esibite nel Massachusetts, in un giorno di festa che cambia la percezione dell’atletica.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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