Yu-Na what I mean

2 Marzo 2010 di Simone Basso

di Simone Basso 
In culture diverse wrestling e calcio soddisfano gli stessi bisogni di tifo e di identificazione: mai hanno avuto bisogno di verità, adesso si sono liberati anche del fardello della veridicità. Peccato che gli stessi schemi vengano applicati anche al racconto del resto dello sport…

“Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”.
(Guy Debord)

Teorizzato come minaccia o risorsa culturale nelle conversazioni da bar sport, utilizziamo anche noi il wrestling per leggere meglio il quotidiano; ultimo atollo ironico prima del finale viscontiano, decadente e angoscioso il giusto. Per i bambini invecchiati della nostra generazione in principio fu il catch, ennesima testimonianza eccentrica nipponica, l’unico immaginario che seppe in quel periodo scavalcare la frontiera americana con una serie di creazioni costruttiviste come i manga e i cartoni animati. Era, rispetto all’armamentario colorato degli yankee, un esercizio asciutto di stile (?) basato sul gesto e non sulla parola: la lotta giapponese fu veramente teatro kabuki, soprattutto se comparata all’eccesso infantile stellestrisce.
Ecco, la Wwf fu molto più circo Barnum e centrata sulla mistificazione: trattasi di avanguardia pura del marketing, un caso curioso nel quale la causa è già l’effetto. Spettacolo ideale per i burattinai e i palinsesti televisivi, abolisce l’imprevisto della veridicità con una rappresentazione scenica manichea ma intelligente: il persiano Mani quando elaborò la sua dottrina religiosa ebbe un’illuminazione warholiana; era il terzo secolo dopo Cristo, ma i pubblicitari (e Tolkien) dovrebbero ringraziarlo ancora oggi. Due principi assoluti, il Bene e il Male, in contrasto eterno ed insanabile; una manna per semplificare, e quindi rendere più popolare, ogni tipo di soap opera in vendita.
Ma l’arguzia del wrestling sta nell’alternanza dei livelli: il buono, dopo un sondaggio rivelatore, può trasformarsi in cattivo e/o viceversa; potenza del televoto implicito e virtuale. Anche esteticamente, giocando amabilmente con il kitsch, può regalare sguardi inediti sull’ammucchiata machista: talmente così redneck, sudista e fallocentrico da essere ribaltato con una bella dose di malizia. Come ci disse un amico gay, due omoni muscolosi e sudaticci che rotolano avvinghiati su un ring, in tutina colorata, non possono altro che suggerire (involontariamente?) un bel complesso psicosessuale freudiano…
Ma non oltrepassiamo le barriere del politicamente conveniente e concentriamoci sui lottatori nell’arena: piacciono proprio perchè esotici e provenienti da un’altra dimensione; fortificano nello spettatore quello stupore bambino che si può salvare solo preservandolo dalla saggezza. Infatti il wrestling in Europa, dal punto di vista sentimentale, è completamente inutile perchè occupa il settore irrazionale della pallonara, esperanto che domina la comunicazione proprio perchè (s)centrato sulla finzione del rito. Più è improbabile, costruito, recitato, maggiore è la sua capacità di annichilire la ragione di chi ne fruisce: la futbalina come sostanza psicotropa sembra assomigliare al crack, ma con la cocaina stavolta non interagisce l’ammoniaca…
Diventando il metro di paragone di ogni cosa (politica, socialità, arte) sconfina anche nello sport: allora, per commentare le Olimpiadi, vengono utilizzate le stesse armi mediatiche del foot. Ecco dunque la banalizzazione di qualsiasi disciplina, seguita come fosse un reality: l’atleta in quanto tale è inutile per tivù e stampa, quindi ci si concentra sull’esoscheletro dello stesso. Il tatuaggio, le foto provocanti, la famiglia al seguito; la specialità nella quale eccelle diventa indifferente, una specie di scocciatura che viene descritta genericamente, con un’insipienza tragicomica. Poi c’è lo sciovinismo a gonfiare di steroidi i titoli: per l’ennesima volta si perde l’occasione di mostrare, ad una platea che ne ignora l’esistenza, la bellezza totale dello sport.
L’ideale che sta dietro la fruizione di questi eventi è liberatorio; si perde la forza dell’ignoranza, si acquista quello della trascendenza: si pattina velocissimi e brutali con Crosby e Kane, si sfreccia sugli sci stretti, respirando come mantici, insieme a Northug; calmi il cuore impazzito dalla fatica e ti concentri sui bersagli con gli occhi della Neuner. Si annullano definitivamente le distanze, cancellando le identità nazionali: rimangono finalmente gli esseri umani. Vedendo scendere Bode Miller nello Slalom della Supercombinata non ci interessava che fosse italiano, americano o ghanese, ci bastava il talento sconfinato di quell’acrobata. Invece si mortificano quelle visioni con un nazionalismo da barricata, cercando disperatamente di interessare un pubblico cloroformizzato a tutto ciò che non sia pettegolezzo e stupidità.
L’esempio perfetto per comprendere la distorsione tra realtà e percezione della stessa è Carolina Kostner, venduta dai media italioti come una David Beckham sui pattini: ma le regole del reality pallonaro funzionano solo in quell’ambito, quelle di uno sport infinitamente più complesso e raffinato come il pattinaggio necessitano di un talento che la bolzanina non ha mai posseduto. Analfabetizzati dall’esigenza di banalizzare tutto, per piazzare meglio il prodotto, ci si copre di ridicolo: nel cantare i dolori della giovane Carolina si dimentica lo splendore vertiginoso di quella competizione, arrivata a livelli tecnici impensabili. Una disciplina finalmente femminista nei risultati, che umilia l’involuzione del settore maschile, alle prese con una crisi d’identità rappresentata benissimo dall’esibizione broadwaiana dell’olimpionico Lysacek.
Con buona pace di un fenomeno come la Mao Asada, a Vancouver si è colmato lo spazio impercettibile, inenarrabile, tra lo sport e l’arte: colpa o merito della venusiana Yu-Na Kim, il personaggio che ha stravolto definitivamente i canoni della specialità. A scanso di equivoci, parliamo della personalità più importante della Corea del Sud contemporanea; un’icona pop che è diventata una gioiosa macchina da dollari, ma che è soprattutto un modello irraggiungibile di sportiva. Perchè espone una perfezione nei gesti che non proviene dal pianeta terra: ha lo splendore lunare, distante, della Sun-Hwa di “Ferro 3” e sul ghiaccio non sembra pattinare, ma dipingere. E’ spaventoso pensare a quanto lavoro si nasconda dietro a quella magnificenza regale; talmente abituati ad esaltarsi per la mediocrità rozza esibita altrove, si perdono le coordinate per decifrare realmente quell’incanto.
Se ha avuto un senso Vancouver 2010, al di là delle parate di Miller e dei voli di Ammann, è quello di aver mostrato per qualche minuto il genio assoluto di un’artista: riempirsi gli occhi di lei, mentre danza soave Gershwin, cancella il cattivo gusto circense che ci impongono come mcdietà tutti i giorni.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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