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La Voce, una destra e un secondo giornale mai esistiti
Stefano Olivari 13/08/2014
La recente morte di Federico Orlando, fra le mille esperienze fatte anche condirettore del quotidiano La Voce nella sua breve vita (marzo 1994-aprile 1995), ci offre il pretesto per ricordare un giornale a cui dobbiamo tantissimo di quel poco che abbiamo combinato e che ha rappresentato un esperimento interessante nell’informazione italiana, dominata (ai tempi ancora di più) dal modello del quotidiano omnibus, dove il lettore pretende di trovare un’infarinatura di tutto: dalla politica estera ai programmi televisivi, dallo sport alle cronache locali. L’idea di Montanelli, dopo avere lasciato il Giornale in seguito all’entrata di Berlusconi in politica, era quella di proporre un modello di quotidiano quasi ottocentesco: commenti, opinioni, analisi, retroscena battaglie di principio senza essere un organo di partito, con lo spirito da liberali e ‘apoti’ di Prezzolini (la cui Voce era datata 1908). In altre parole il mitico ‘secondo giornale’, progetto temerario in un paese in cui a malapena si leggeva e si legge il primo. Idea moderna nel 1994, quando internet riguardava solo università e militari, che sarebbe modernissima nel 2014: non può essere un caso il successo del Fatto Quotidiano di Padellaro e Travaglio (una delle migliori firme della Voce, fra l’altro scriveva anche di Juventus), difficilmente incasellabile in un movimento politico pur avendo ben chiari i propri avversari. Peccato che Montanelli a 85 anni non avesse l’energia per opporsi ai suoi tanti colonnelli (fra i quali proprio Orlando), che premevano quasi tutti per un giornale più tradizionale e che si distinguesse dagli altri non per la formula ma per la scelta di area politica. Da qui le assunzioni a livelli assurdi per un quotidiano di opinione (ci sembra di ricordare una settantina di persone, più il personale amministrativo), a cifre non modiche, un numero notevole di collaboratori, una sede che non si sarebbe potuto permettere nemmeno il Wall Street Journal (cinque piani di un palazzo di fronte al Castello Sforzesco, a Milano) e un sovradimensionamento anche negli aspetti minori, dalle trasferte alle note spese. Il tutto senza un vero editore, ma con un azionariato diffuso (nemmeno tanto) che non avrebbe retto alla prova delle ricapitalizzazioni. Insomma, dopo un inizio con il botto a livello di vendite la Voce si voleva accreditare come primo giornale, pur essendo evidente in molte sue sezioni e spesso anche nella prima pagina (a un certo punto curata dal geniale Vittorio Corona, padre dell’adesso più noto Fabrizio) la presenza di un’anima provocatoria e movimentista, ben lontana dalla completezza pretesa dal lettore del Corriere della Sera o del Messaggero ma più vicina a una nuova sensibilità oltre che a un mercato all’epoca inesplorato. Era evidente che Montanelli tifasse per questo partito, ma era anche prigioniero della gratitudine nei confronti dei giornalisti ‘classici’ che lo avevano seguito e di una certa ricerca senile di approvazione da parte delle sedicenti elìtes intellettuali che il Montanelli di qualche anno prima (quello gambizzato nel 1977 dalle Brigate Rosse) avrebbe definito comunisteggianti. Proprio quelle contro cui aveva costruito il suo successo… Della scelta di campo politica hanno scritto in tanti, con il senno di poi l’idea di un elettore di centro-destra antropologicamente ostile a Berlusconi sembra folle ma in quei mesi di grandi cambiamenti tutto sembrava possibile, anche che Mario Segni (!) potesse essere un leader. Di Montanelli rimane tantissimo, più i libri di cui era coautore degli articoli rivolti a un pubblico che non troppo sottilmente disprezzava, della Voce rimane invece l’amara dolcezza delle occasioni perse.