Vialli e l’Uomo nell’Arena di Roosevelt

16 Luglio 2021 di Stefano Olivari

Il video di Gianluca Vialli che legge L’Uomo nell’arena ai giocatori della Nazionale, due giorni prima della finale di Euro 2020 contro l’Inghilterra, è davvero molto emozionante. Per il momento della vita di Vialli e della storia calcistica d’Italia. Al di là come poi sia finita, cioè con la vittoria, perché da noi celebrare le belle sconfitte non è frequente e probabilmente non sarebbe avvenuto nemmeno a questo giro, con Mancini derubricato da padre della Patria a Prandelli bis con pacca sulle spalle. Giustamente il video è stato inserito in Sogno Azzurro e così potranno conoscere questo discorso anche le persone che non lo abbiano mai sentito o letto: poche, visto che è stato strausato nel mondo dello sport (celebre la versione di LeBron James ai tempi degli Heat) ed anche nei mille corsi motivazionali a cui ci vantiamo di non avere partecipato.

L’Uomo nell’arena è in realtà la parte di un discorso che Theodore Roosevelt tenne alla Sorbona nel 1910, conosciuto come Citizen in a Republic, quando già da due anni non era presidente degli Stati Uniti (aveva rinunciato a ripresentarsi per al terzo mandato, all’epoca non c’era il limite di due ma comunque il primo era stato da subentrante al presidente ammazzato): “Non è il critico che conta, né l’individuo che indica come l’uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un’azione. L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta“.

Vialli ha utilizzato una traduzione leggermente diversa, ma soprattutto ha tolto la prima parte, che poi è quella che di solito viene usata per zittire, a volte anche preventivamente, i critici, come se non fosse chiara la differenza fra chi fa una cosa e chi la giudica, anche banalmente il pubblico, l’elettorato o la clientela. Certo è che le parole di Roosevelt sono di grande impatto ed applicabili a qualsiasi campo, anche se solo nello sport, e nemmeno sempre, vittoria e sconfitta possono essere definiti. Ma al di là dei manuali di management-spazzatura, quelli pieni di Sun Tzu e Von Clausewitz, Giulio Cesare e Machiavelli, perché la figura di Theodore Roosevelt è ancora oggi così affascinante?

Prima di tutto perché davvero unì il pensiero all’azione, quando con una carriera politica già lanciata nelle fila del partito repubblicano si arruolò volontario nella guerra contro Spagna a Cuba, nel 1898 e combatté effettivamente sul campo, diventando una sorta di eroe nazionale e contribuendo poi da candidato vicepresidente alla rielezione di McKinley (non quello della nuca, per tornare a Italia-Inghilterra), di cui prese il posto quando questi fu ucciso da un anarchico polacco nel 1901. Roosevelt fu il primo presidente americano a mettere limiti ai monopoli delle grandi aziende e a far intervenire gli Stati Uniti in tutti gli scenari politici internazionali: nel 1906 gli fu assegnato un incredibile (a lui super-guerrafondaio, come del resto McKinley che aveva combattuto nella Guerra di Secessione) Nobel per la Pace per avere ispirato la pace fra Russia e Giappone.

Theodore Roosevelt è stato anche l’unico uomo che davvero ha scardinato il sistema bipartitico statunitense, con tutto il rispetto per Ross Perot e magari anche per Trump in futuro. Nel 1912 infatti Roosevelt aveva deciso di correre di nuovo per la presidenza ed aveva vinto le primarie del partito repubblicano, che però voleva continuare con Taft. Così fondò il partito progressista ed arrivò praticamente da solo, senza Twitter o reti televisive, al 27,4%. Non abbastanza per essere eletto, ma abbastanza per poter dire di avere lottato. Giusto ricordare anche la sua appartenenza orgogliosa e dichiarata alla massoneria, che del resto ha avuto una grande importanza storica: senza di essa, con Cavour, Garibaldi e tutti gli altri, non esisterebbero l’Italia e quindi nemmeno il discorso di Vialli ad Immobile e Donnarumma.

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