Valeria Fabrizi e il linguaggio del tempo

8 Aprile 2021 di Stefano Olivari

Oggi l’autonominato tribunale del popolo processa Valeria Fabrizi. Premessa. Da molti anni, almeno dalla metà dei Novanta, quasi nessuno in Italia usa più il termine ‘negro’ o negra’ per riferirsi a persone dalla pelle nera. Non siamo spagnoli o rumeni, negro è diverso da nero. Però tutti quelli che una trentina di anni fa erano già cresciuti, a prescindere dalle idee politiche, pensano con la ‘g’, cambiando poi la parola quando si esprimono in pubblico.

Per questo le critiche a una grande attrice di 85 anni come Valeria Fabrizi, per la gaffe televisiva (a Da noi…a ruota libera, trasmissione di Rai 1 condotta da Francesca Fialdini) fatta riferendosi oltretutto a una sua foto, con tanto di Tapiro di Striscia la Notizia (un manganello mediatico, né più né meno), sono degne del talebanismo e della suscettibilità di questi tempi. Del resto la gente sta a casa, pagata (quando le va bene e fa parte del mondo dei garantiti) per non fare niente, ed è logico che abbia tempo da perdere.

Qualche giorno fa un amico dopo aver letto il nostro post su Maccabi Tel Aviv-Sinudyne del 1981 ci ha mandato un ritaglio del Corriere della Sera di metà anni Settanta, riferito ad una partita della stessa Virtus Bologna contro un altro Maccabi, quello di Ramat Gan (oggi di fatto un quartiere di Tel Aviv). Citiamo dal giornale che mai è mancato nelle nostre mattinate, a prescindere dalla sua qualità, scesa a livelli imbarazzanti: “In un’azione a metà campo fra l’americano bianco della Sinudyne, McMillen, e l’americano negro del Maccabi, Cheateam, gli arbitri rilevavano un fallo e lo fischiavano. Interrotta l’azione si vedeva il negro scagliarsi su McMillen e colpirlo con un pugno“. Era il Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, un giornale quasi di sinistra e di sicuro progressista, ma questo era il linguaggio ritenuto all’epoca non offensivo.

All’epoca? Anche molto dopo. Da avidi lettori di cronache pugilistiche e di atletica fin quasi alla fine degli anni Ottanta abbiamo visto usare ‘negro’ o ‘negretto’ in contesti anche elogiativi, da giornalisti super e non dagli analfabeti di Twitter. Tutto questo per dire che il linguaggio cambia, in base alla sensibilità del presente, ma le persone non possono cancellare in automatico decenni di vissuto. Con buona pace della cosiddetta cancel culture, i cui scopi sono peraltro molto centrati sul presente.

Share this article