Unguarded, Scottie Pippen sempre numero due

12 Novembre 2021 di Stefano Olivari

Non potevamo aspettarne la versione italiana e così il giorno stesso dell’uscita abbiamo scaricato su Kindle e letto in tre notti Unguarded, l’autobiografia di Scottie Pippen che era stata presentata in chiave anti Michael Jordan, perché il marketing ha le sue leggi, e che in effetti di Jordan parla molto. Non sarebbe potuto essere altrimenti, visto che per sempre il nome di Pippen sarà legato a quei Bulls sei volte campioni e quindi al loro giocatore simbolo.

Pippen si toglie, e lo fa togliere anche a noi, subito il dente affrontando il tema The Last Dance. La serie non gli è piaciuta non perché ci siano falsità ma perché ha l’impostazione ‘Michael e gli altri’ che poi è sempre stata quella dei media e di tutti gli appassionati di NBA. E ribadisce il concetto cardine di tante sue interviste: lo hanno sempre sottovalutato, perché Jordan e i Bulls non sarebbero stati gli stessi senza Pippen.

 

Come sottovalutati sono stati altri Bulls, a partire dal suo grande amico Horace Grant. Per rafforzare il concetto Pippen riesce anche parlare bene, facciamo semi-bene, di Toni Kukoc… Phil Jackson li rese una squadra, con Doug Collins o altri allenatori Jordan sarebbe rimasto un incompiuto: Pippen lo fa capire, ma non lo dice apertamente, come se avesse paura di Jordan anche adesso. La critica rimane sottile, come quando sostiene (secondo noi a ragione) che The Last Dance sia stata un’operazione di MJ per intercettare il pubblico più giovane, che magari pensa che il migliore di sempre sia LeBron James.

Le pagine sul cameratismo che a volte si crea in una squadra NBA sono le più interessanti, insieme al racconto di un’infanzia poverissima per lui e gli undici fratelli e alle quasi due stagioni del primo ritiro di Jordan, secondo Pippen le più divertenti mai giocate. A proposito, il giusto spazio è dedicato al suo celeberrimo gran rifiuto contro i Knicks, nei playoff 1994, quando Jackson disegnò lo schema per il tiro finale di Kukoc. Pippen anche a distanza di quasi trent’anni non si pente del gesto, ma delle parole sì (in sintesi, accusò il coach di essere razzista).

Un pregio di Unguarded è comunque quello di non dilungarsi sulle stagioni di quei Bulls, cose stralette nei libri di Jackson, Sam Smith e altri, per puntare più sulle osservazioni tecnico-tattiche e sull’evoluzione del gioco. Che contrariamente a quanto avvenuto in altri sport è diventato meno fisico, nel senso di meno violento, rispetto agli anni Novanta… Il tempo lo ha aiutato a mettere nella giusta luce Jerry Krause, il cattivo ideale nel politicamente corretto di oggi, l’unico possibile (maschio bianco di mezza età), che nel libro viene sempre criticato per i suoi comportamenti, ma dando colpe anche a Jerry Reinsdorf: non ci voleva una cima per comprendere che il proprietario conti più dei manager, non soltanto nella NBA.

La cosa che ci è piaciuta di più è comunque il rivolgersi agli appassionati, più che a un pubblico generalista (scelta che sarà piaciuta di meno all’editore) affamato della sua storia con Madonna e di altri gossip, con confronti che fatti da noi sarebbero bar ma che nella bocca di Pippen diventano interessanti. In particolare quello fra i Bulls anni Novanta e i Golden State Warriors come squadra più forte di tutti i tempi. Secondo Pippen una partita dei sogni fra queste due squadre avrebbe un esito incerto mentre certo è che tutti i confronti diretti sarebbero a favore dei Bulls tranne, bontà sua, Steph Curry con Harper. Nostalgia canaglia, sua, nel ritenere Rodman superiore a Draymond Green…

La cosa che non ci è piaciuta del libro, ma lo abbiamo letto in inglese e quindi magari abbiamo equivocato, è il tono dolente e lamentoso molto al di là dei suoi soliti discorsi sul sottovalutato e sottopagato. Chi gioca nella squadra di Michael Jordan è ovviamente il numero due, ad andare bene, non è colpa di nessuno. E questo è un libro da numero due, imperdibile per noi appassionati ma scritto, o fatto scrivere a Michael Arkush, sempre in relazione ad altri.

 

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