Un giorno succede

1 Luglio 2010 di Marco Lombardo

di Marco Lombardo
Infatti un giorno succede: «Ricordo che una volta parlando con Wayne Ferreira mi ha detto che faceva sempre serve and volley sulla prima di servizio e 50% sulla seconda. E che verso la fine della sua carriera a Wimbledon, era solito fare serve and volley 50% sulla prima e non più sulla seconda. Ti chiedi: come è successo questo nel mondo?». Infatti un giorno è successo, ieri, il giorno in cui Roger Federer è uscito da Wimbledon come uno qualunque, anzi peggio, perché l’applauso che il campo centrale gli ha dedicato alla fine sembrava quello destinato a un reduce, l’atto di saluto estremo per l’attore di tante finali. Sette consecutive, per la precisione, con l’unica sconfitta subita nel 2008 contro Nadal, il match più bello di sempre che Federer non ha mai voluto rivedere. E chissà adesso quanto ci metterà Roger a guardare il suo nome uscire dal giardino di casa.
Infatti un giorno succede: forse a Wimbledon non ci sono molti specchi in giro, ma la frase di Kipling che campeggia all’ingresso del campo centrale, «Se sai incontrarti con il successo e la sconfitta e trattare questi due impostori proprio nello stesso modo», dovrebbe insegnare che nella vita, in un quarto di finale qualsiasi, arriva Tomas Berdych a ricordarti che gli altri vedono quello che tu non vuoi vedere. Perché Berdych è lo stesso ceco che avevi battuto tante volte – otto su dieci – e perché in fondo non hai giocato così male da doverti rimproverare qualcosa. Però infatti succede, perché la faccia non è quella dei giorni migliori, e gli altri – noi – vedono quello che tu non riesci a capire.
Chissà Roger Federer quasi se lo sentiva citando un paio giorni prima del match che ha cambiato la storia del tennis sull’erba quelle parole del suo ex compagno di doppio Ferreira: non c’è più lo Wimbledon di un volta, con quell’erba troppo sbiadita e quella terra troppo battuta. E così adesso non c’è più Roger Federer in finale, è la prima volta dal 2003, è il giorno del «Disaster» di Kipling che tradurre sconfitta forse è davvero poco. È proprio un disastro. E pensare che solo poche ore prima John Isner, quello della sfida record con Mahut, era andato al David Letterman Show a scherzare sulla sua vittoria extralarge. E nella Top Ten della categoria «Cosa è passato nella mente di John Isner durante le undici ore di partita?», aveva inserito anche la numero 4: «Perché non ho giocato contro Federer? Mi avrebbe fatto fuori in un quarto d’ora…». Una volta, John, una volta.
Perché infatti è successo: 6-4, 3-6, 6-1, 6-4, quattro set, neanche una débâcle epica, una partita qualunque, quasi come se vittoria e sconfitta fossero davvero lo stesso impostore, solo che Roger non sa ancora trattarli allo stesso modo. «Ho letto tante cose su di me, sul fatto che sono in crisi e non vincerò più come una volta. Vedremo…»: era solo domenica, Roger, quando l’hai detto… E quindi, adesso, comincerà la caccia al colpevole: il matrimonio, le gemelline, il benessere, l’amico Tiger Woods, la mancanza di un allenatore, la nostalgia di Juliette, ovvero la mucca di 800 chili che mamma regalò al pupo dopo il suo primo Wimbledon. E tu stesso, Roger, fai subito notare che ti facevano male la schiena e la gamba, «è un infortunio che mi porto dietro da Halle, niente di grave. Ma quando non puoi giocare con la testa libera, finisce che non giochi come sai». Tutto vero, però…
Però quel giorno arriva, ed è stato ieri: bastava solo uno specchio, perché capita nella vita, ad esempio quando scopri il primo capello bianco o quando il tuo compagno di scrivania ti dice che un banale colpo in una partitella di calcio gli ha procurato la rottura di due costole. Capita che gli dici «non ha più il fisico, dovresti smettere» sapendo che dovresti parlare anche a te, se ti vedessi. Ecco perché in fondo è tutto normale, un giorno succede e non puoi farci nulla. C’è Roger Federer che esce a testa bassa dal campo centrale di Wimbledon e va in sala stampa per dire che però non è finita qui: «Tornerò a dominare il tennis? Certo, è il motivo per cui sono qui…». In quel momento sai che se lì ci fosse stato uno specchio, anche Roger avrebbe visto con chiarezza. Avrebbe visto che eravamo tutti più vecchi.
Marco Lombardo
(per gentile concessione dell’autore, fonte: il Giornale)

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