logo

Basket

Steph Curry uno di noi (magari)

Stefano Olivari 19/06/2015

article-post

I Golden State Warriors guidati da Steph Curry sono diventati i campioni NBA forse più atipici della storia, ma lo sarebbero stati anche i loro rivali nelle Finals. Quei Cleveland Cavaliers che fra mosse di mercato e infortuni gravi avevano alla fine in campo soltanto un giocatore del teorico quintetto base di inizio stagione: certo, quel giocatore era LeBron James, ma al di là di alcune prove eroiche (i lunghi Thompson e Mozgov, più Dellavedova: un canadese, un russo e un australiano) i compagni erano di livello troppo modesto per essere trascinati oltre una onorevolissima sconfitta per quattro a due. Che diventa la quarta finale persa sulle sei disputate da quello che entrerà nella discussione sul più forte di sempre, generando intorno a lui ragionamenti calcistici. Per James l’anno del ritorno a casa, dopo la gloria di Miami, è da considerarsi comunque stra-positivo: questa stessa squadra con Irving sano e un’ala forte che si integri meglio di Kevin Love (magari lo stesso Love, ma con atteggiamento difensivo diverso) sarebbe già la naturale favorita per il titolo 2016.

Il presente è però degli Warriors, la squadra che ha dominato la stagione regolare con Curry miglior giocatore della lega, che come a ribadire la loro atipicità hanno visto nominare MVP delle finali Andre Iguodala, quasi fino alla fine utilizzato da primo cambio. L’allenatore Steve Kerr, al suo anno d’esordio nella NBA (come del resto il collega avversario) deve proprio all’idea di mettere in quintetto a metà serie un’ala piccola come Iguodala, lasciando in panchina il centro Bogut e quindi estremizzando le caratteristiche della squadra (velocità, circolazione di palla, tiro, difesa attiva), l’uscita dalla brutta situazione in cui si era messo: sotto due a uno, con la quarta partita da giocare a Cleveland contro una squadra decimata ma entusiasta. Iguodala ha dato più atleticità e tirato anche sopra i suoi standard, costringendo i Cavs ad abbassare a loro volta il quintetto: David Blatt, l’allenatore di Cleveland e l’anno scorso trionfatore in Eurolega con il Maccabi Tel Aviv (parentesi: quest’anno nemmeno è arrivato nella finale del campionato israeliano), non aveva troppe alternative e nella seconda metà della serie la vittoria degli Warriors è apparsa quasi logica vista la differenza di freschezza. Iguodala diventa così il primo MVP delle Finals a non essere partito titolare in tutte le gare della serie, ma soprattutto diventa dopo trentacinque anni il primo ad esserlo diventato avendo in squadra l’MVP della stagione regolare. Ci era riuscito Magic Johnson con i Lakers 1980, avendo come compagno MVP Kareem Abdul-Jabbar.

Va detto che per una volta il premio è stato molto ‘tecnico’, fin troppo, perché dal punto di vista emotivo gli Warriors coincidono con Stephen Curry e il suo fisico fintamente normale, che di normale ha in realtà soltanto la statura. La sua capacità di alternare momenti da costruttore di gioco, sempre creativo, ad altri da risolutore in proprio delle situazioni più intricate (la costruzione del tiro da fuori usando soltanto il proprio palleggio, senza blocchi, è da cineteca) e l’integrazione con il quasi gemello Klay Thompson sono la summa del pensiero tattico di Kerr, abbastanza vicino a quello di Mike D’Antoni (suo allenatore a Phoenix, quando Kerr faceva il dirigente), citato nel dopo-garasei sia da lui che dall’assistente Alvin Gentry, ma non uguale. Le statistiche gli danno ragione: contando tutte le sei partite i quintetti con un centro di ruolo hanno chiuso con meno 17 di plus/minus, quelli senza con più 60. A completare la squadra Harrison Barnes, ala di rara pulizia tecnica nella NBA di oggi, e Draymond Green che spostato sotto canestro è stato l’anima della difesa di Golden State, il cui ultimo titolo risaliva esattamente a quaranta anni fa, all’epoca di Rick Barry.

Mai come in questo caso gli sconfitti sono usciti dal campo, dal loro campo (garasei si è giocata a Cleveland) con il massimo degli onori. Non è stata una riedizione delle Finals del 2007 contro gli Spurs, quando James pur avendo ugualmente una squadra di gregari (ma di livello superiore a quelli 2015), sbagliò completamente approccio. Il LeBron di adesso, ormai trentenne, è un tiratore di livello superiore, sa coinvolgere i compagni nel modo giusto, dà spesso il meglio sotto pressione e non esagera con gli isolamenti. Impressionante la sua resistenza, avendo giocato da uomo di riferimento 275 minuti dei 298 (da contare anche i supplementari di garauno e garadue) teoricamente possibili. Nei 23 minuti in cui è stato in panchina a rifiatare i compagni si sono esibiti in un 6 su 35 al tiro, senza nessun canestro da tre punti. Può bastare? Eppure questo campione che non rilascia dichiarazioni memorabili e ha una vita irreprensibile suscita ad ogni sua sconfitta (difficile comunque definire questa una ‘sua’ sconfitta) reazioni assurde da parte dei tanti ‘haters’ che in lui vedono l’incarnazione della NBA arrogante di oggi contro quella dei bei tempi andati. Una NBA che però piace, visto che le finali hanno negli USA con quasi 20 milioni di telespettatori di media battuto ogni record successivo all’era Jordan-Bulls.

Dal punto di vista delle emozioni l’eroe della serie è stato Matthew Dellavedova, playmaker più d’assalto che di costruzione (anche perché la palla era sempre in mano a LeBron) che da cambio di Irving è diventato quasi il leader di un gruppo che non ha voluto arrendersi all’evidenza degli infortuni e che adesso, a meno di non suicidarsi sul mercato, ha un ottimo futuro davanti a sé. Adesso però si festeggia in California, è il momento degli Warriors e di Curry, che la famiglia (moglie in attesa del secondo figlio, mamma scatenata, papà Dell ex ottimo giocatore NBA) ha seguito passo dopo passo in questa sua incredibile ascesa. Quel bambino di quattro anni che all’All Star Game 1992 guardava con aria sognante la meccanica di tiro di Drazen Petrovic e che ha dovuto nella NBA superare infortuni e pregiudizi sul suo fisico è diventato un’icona globale, uno spot vivente per il gioco, l’uomo che tutti noi vorremmo essere.

(pubblicato su Il Giornale del Popolo di venerdì 19 giugno 2015)

Potrebbe interessarti anche

  • preview

    Il Muro della pallacanestro

    Lo spazio per i nostri e vostri commenti sulla pallacanestro italiana e internazionale, resistendo (ma anche no, perché questo è uno dei pochi sport in cui la nostalgia è fondata) al mantra ‘Una volta era tutto meglio’.

  • preview

    La stessa fede di Carnesecca

    Oscar Eleni nel labirinto della stazione romana Tiburtina, aiutando i compagni di viaggio a non maledire proprio tutti i 200 cantieri incompleti che aspettano i giubilanti in mezzo a tanti maledicenti con gli occhi dei leoncini appena nati in Tanzania. Ci vorrà tempo per metabolizzare la giornata nel tempio del palazzo acca, Malagò regnante, con […]

  • preview

    Sfortuna sui tiri aperti

    Oscar Eleni sul letto di ortiche dove ci costringe la passione per chi gode accontentandosi di vestire disastri con il sorriso. Lo sa anche il pinguino messo fuori dal branco perché il melanismo delle isole atlantiche georgiane gli ha cambiato colore e per il resto della tribù resta un diverso. Notte insonne e insana dopo […]

  • preview

    Il canto del Galloway

    Oscar Eleni in fuga nelle Azzorre per non sentire i fischi alla Marsigliese, una buona scusa  per non guardare il “nuovo calcio” dentro San Siro nel giorno in cui tutte le feste sono dedicate a Sinner su reti unificate, con visita pastorale finale anche da Fazio, l’unico teatro dove sembra possibile dire ancora qualche verità […]

  • preview

    Vincere con Librizzi

    Oscar Eleni in testa al corteo che cerca di proteggere i poveri macachi fuggiti dalle celle dove vivevano come cavie. Siamo nel Sud Carolina e la fuga c’entra con le torture nel nome della scienza, non certo con le votazioni presidenziali. La polizia chiede alla gente di tenere porte e finestre chiuse, escludendo però che […]

  • preview

    Fango contro il Re

    Oscar Eleni fra le capanne colorate del Suffolk insieme agli indiani Cuna che, fuggendo da un‘isola panamense, hanno tirato fango verso il re, le autorità, senza ancora sapere che questa rivolta avrebbe ispirato altre proteste. Lo hanno scoperto a Valencia il Re di Spagna e il suo primo ministro davanti a gente furiosa, stanca di […]

  • preview

    Brooks Brothers

    Oscar Eleni respinto dai buttafuori mentre pretendeva di entrare a vedere il tramonto all’Idroscalo di Milano dove tutto cambia in un attimo meno l’orario fisso dei petardi fatti scoppiare nella notte e la crisi dei suoi campioni dello sport. Una passione insana per la beatificazione dei santi, cosa difficile nello sport, e la commemorazione dei […]

  • preview

    Bronny James ridicolo

    Bronny James è ridicolo? Sì, ma è un ridicolo con un perché. Come tutti sanno, l’altra notte il figlio di LeBron James è sceso in campo con i Los Angeles Lakers nella loro prima partita stagionale vera, contro i T-Wolves. JJ Redick gli ha dato 2’41” verso la fine del secondo quarto, in campo insieme […]

  • preview

    Su le Mannion

    Oscar Eleni ospite della scimmia albina e del rospo ciarliero nel parco che in Costarica curano bene temendo il vulcano Tenorio. Diavoli e angeli tengono lontana la gente che ancora protesta dopo l’eurofiguraccia Armani contro Kaunas  e Trinchieri che si è bevuto 27 bottiglie della collezione Messina. Ascoltando la predica di un teologo tedesco che invita […]

  • preview

    Tutto in famiglia

    Oscar Eleni nella valle desolata dei babbuini fra licheni gialli e rossi ascoltando l’eco di una bella intervista a Stefano Bonaga, filosofo, amante del basket come il fratello Giorgio, chimico illustre e, come lui, figlio della Virtus Bologna dove hanno camminato  ad ogni livello dalle giovanili alla prima squadra se serviva. La curiosità di un […]