Roubaix di luglio

10 Luglio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Sabato, primo avvistamento alpino al Tour de France: si entra nello Jura e comincia la rumba; niente di clamoroso in quanto a pendenze, ma avviso di chiamata per i ras del plotone. Settimana di avvio tutt’altro che decorativa: abituati a Grande Boucle con un incipit bloccato dalle ruote veloci, ci eravamo dimenticati del fascino meraviglioso dei tulipani (proponiamo partenze di Grandi Giri, a rotazione, nella terra che fu di Bosch..) e di quello sadomasochistico del pavè. Eppure, in alcune edizioni dei Settanta e (soprattutto) degli Ottanta, i tratti di porfido resero indimenticabili quelle annate: ecco dunque finalmente i tappisti, che ad aprile la Roubaix non la guardano nemmeno alla tivù, costretti a spaventarsi delle mischie rugbistiche nell’approccio al Ballo di San Vito. Ne è uscita una frazione stupenda, simile per intensità a quella fangosa di Montalcino al Giro: nelle polveri poco sottili alzate dagli sfregaselle, il deserto dei barbari, abbiamo letto le viscere del ciclismo prossimo venturo. Che sarà di una poetica simile a Chessex: un folle alternarsi, selvaggio, tra tradizione e avanguardia.
L’attenzione è corsa ai Tourannosauri, diversamente fortunati sulle pietre aguzze: Andy Schleck, con il fratello Frank kappao, si è comportato benissimo; d’altronde nessuno ha una badante elvetica (Spartacus Cancellara) che ti spiana la via in quella maniera; sul carro di Cadello Evani, finalmente una maglia iridata degna del lignaggio indossato, non abbiamo bisogno di salirci perchè lo frequentiamo assidui da circa un decennio. Il torero Contador ci ha invece sorpresi piacevolmente, bello cattivo e determinato in mezzo a quel caos, ispirato dall’esempio del lupo mannaro Vino; l’Armstrong furente, dopo la foratura fantozziana, ha comunque ancora il fascino diabolico del Dottor Benway ed un Brajikovic come arma tattica. L’Ivan da Cassano Magnago, conclusi i festeggiamenti per la seconda rosa (un chinotto e un bacio della moglie), si è trovato a disagio sul pavè: lo svantaggio accumulato potrebbe consentirgli maggiore libertà negli agguati, vedremo.
Quest’anno si percorre il riccio al contrario, con l’antipasto alpino che precede una portata pantagruelica pirenaica: in questi casi, la tradizione vuole che il Tour ricomponga le sue gerarchie quasi definitive su una montagna dell’Alta Savoia. Come se il dittatore decidesse subito la sorte dei cari inferiori: ricordiamo quindi il Fostò Copì della vernice sull’Alpe d’Huez nel 1952 o il faraone Indurain, salendo verso La Plagne all’inseguimento di uno Zulle in fuga, che bastonò la concorrenza impaurita (1995). Stavolta invece non sembrano esserci i presupposti, agonistici ed altimetrici, per una randellata: in compenso si rivivranno le strade tormentate verso Gap, le stesse che conclusero la carriera di Joseba Beloki (2003) e, dopo il cucuzzolo che porta a Mende, una bella serie di uppercut sui Pirenei.
Da segnare rosso fuoco il diciotto Luglio, con la tremenda Revel-Ax 3 Domaines, e il ventidue che porterà i resti della carovana all’arrivo sul Col du Tourmalet;
il giudice inappellabile che decreterà il vincitore della Festa di Luglio: sempre che il cronoepilogo di Pauillac (52 chilometri tra i filari d’uva dello Chateau Lafite-Rothschild, visione da sconsigliare agli astemi..) non debba riordinare i minutaggi dell’oligarchia pedalante. Per adesso ci accontentiamo di quelle strade stracolme e di un Petacchi che a trentasei anni ha dimostrato le gambe di un Fiasconaro: le due progressioni in faccia a Motocicletta Cavendish e al Cabaret Voltaire dello sprint sono stati gesti atletici esaltanti.
Dedicando un pensiero a Marina Romoli, l’ennesima vittima su due ruote della stupidità di quelli su quattro, vorremmo uscire dal seminato proponendo un paio di righe sul Giro pupe; ma atlete come Arndt, Teutenberg, Vos (un fenomeno!), Guderzo, Abbott, meriterebbero uno spazio tutto loro.
L’altro dì arrivavano ad Albese e ci hanno ricordato che sono passati già quindici anni da quel giorno infausto che morì Fabio Casartelli. Anche nel 2010 il Tour passerà sul Portet d’Aspet, davanti alla stele che commemora il campione olimpico di Barcellona ’92; quella volta fu indimenticabile l’atteggiamento del gruppo il dì dopo: si era in piena Epolandia, con tutti i distinguo del caso, ma diedero una lezione di dignità a tutti. Fecero otto ore di corteo funebre nel solleone, alla faccia degli organizzatori che non fermarono il circo nemmeno per la morte di un ciclista, ed esibirono la parte più nobile di un mestiere bellissimo e tremendo. Al solito, malgrado l’ematocrito a sessanta, furono molto più puliti e sinceri della maggioranza silenziosa che li critica: nell’era del delitto perfetto, nelle ore che un Lebron James ci appare come una Paris Hilton qualsiasi, il Tour de France è un dettaglio che ci riporta sempre alla realtà della strada.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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