Quelli del Cycling Stadium

28 Marzo 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Giorni di pista mondiale a Copenhagen, quasi completamente evirata dai media nazionali; d’altronde trattasi di un festival esotico, soprattutto di atleti di lingua inglese (britannici, americani, australiani, neozelandesi) e l’attenzione viene calamitata dalle magnifiche sorti progressive della pallonara.
Per non disturbare troppo, BiciItalia continua ad accanirsi con cieca indifferenza su quel che rimane del settore nazionale: una pattuglia di ripudiati della strada, completamente privi della materia prima (cioè delle strutture) e affidati ad una programmazione improvvisata; una contraddizione parecchio italiana, divertente se affidata a Totò e Peppino, mortificante quando è lo specchio di tempi catramati come questi. Non essendoci una pista al coperto sul territorio dell’intero Stivale, facciamo fatica a concepire una sfida dei nostri carbonari a Taylor Phinney o Chris Hoy; atleti da paura, corrispettivi fisiologici di Lashawn Meritt e Trey Hardee, materiale umano di livello mostruoso.
Noi invece ad osservare le macerie, nemmeno fossimo nel centro storico aquilano, e a ricordare i tempi andati: è notte fonda anche per il circo delle sei giorni; chi era giovincello negli Ottanta ricorda il Palazzone milanese e una manifestazione circondata da un muro di folla. La stessa fotografia dell’Olimpia petersoniana da bere o di una due giorni settembrina con i Queen: gli attori, Pijnen, Sercu (il Merckx della specialità), Moser, Saronni, Thurau; il Barnum di contorno con le orchestre da transatlantico, le scommesse in nero, Lara Saint Paul simil saffica e Ilona Staller comemammalafece. Il crollo (l’ennesimo) di quella struttura come metafora dello scibile contemporaneo; oggi, al posto del santuario dello spettacolo meneghino, un bel parcheggio che esalterebbe il Ballard de “L’isola di cemento”.
L’esercizio pedalatorio, che sa tanto di intrighi appassionanti e di mercenari disposti a tutto con l’odore dell’olio di canfora ovunque, resiste e sopravvive nel Nord Europa delle pedivelle (Svizzera, Olanda, Germania). E’ un rito specialistico che vive di regole tutte sue e se un Bruno Risi, il boss odierno, non vale il Peter Post del tempo che fu (non pensiamo che l’elvetico possa vincere, nella offseason, una Roubaix..) non ci stracceremo le vesti: il fascino della liturgia, il giusto incontro tra bisca clandestina e sport, vale il prezzo del biglietto. Un’esibizione onesta, che non prevede la sua utilizzazione come esoscheletro per schermare altro, ovvero cose che non hanno nulla a che fare con l’espressione agonistica. Esemplare la gazzarra sviluppatasi attorno al Gran Premio di Roma ecclestoniano, impresa da Fitzcarraldo al contrario, o la promessa minacciosa di edificazioni di nuovi stadi futbalistici per blatteriadi future: per il Delle Alpi di Torino, quello delle notti maggiche di Montezuma, ci si dimentica sempre che costò poco rispetto al sacrificio degli operai ammazzati. Sette? Dieci? Quattordici? Male che vada, li giocheremo al Lotto…
Allora, separandoci definitivamente da un discorso meramente sportivo (anche se foot e tubo di scappamento lo sono come la lotta nel fango e la corsa nei sacchi), ci addentriamo nei meandri del post-moderno: chiunque bazzichi a Varese potrà testimoniare il fatto, evidenziato da un parcheggio in via Europa ancora in costruzione per la rassegna iridata ciclistica del…2008. Certi eventi italici, soprattutto se sponsorizzati con la procedura d’urgenza della Protezione Civile (la mitica Banda Bassotti de’ noantri), sono perfetti per introdurre migliorie (..) al paesaggio urbano. Varese 2008, dal punto di vista organizzativo, è un Guernica di Picasso: conti misteriosi (71,4 milioni di euro!?), alberghi costruiti in zone idrogeologiche a rischio e, come volevasi dimostrare, infrastrutture per i ciclisti mai realizzate. In compenso una pioggia dorata (…) di denaro pubblico ai soliti noti come il Polita, che a Capolago ha iniziato a edificare un albergo da 78 camere, o il Ligresti, beneficiato anche dal fantomatico Cycling Stadium. Salvatore nostro adocchiò un terreno interessante mentre scontava una pena in una comunità di riabilitazione e se lo comprò nel 1998; trasformatosi magicamente in ippodromo e, durante i mondiali, asfaltato e poi rimosso. Il cadeau per lui ha previsto anche l’Atahotel, 220 stanze e un auditorium: poco importa poi che Varese 2008 Spa abbia 2 milioni di debiti…
Il corrispettivo elvetico a Mendrisio, 18 chilometri sopra, è un paragone umiliante anche per un popolino privo di dignità: il comitato organizzatore del 2009 (nove milioni di budget) ha restituito 100.000 euro avendo speso meno del previsto. Strade rifatte, piste ciclabili e nemmeno un mattone spostato nel conto del menu; a dire il vero anche il Mondiale 2004 veronese, bis sia organizzativo che agonistico (Oscarito vince semper lù), è costato relativamente poco (5 milioni) e ha reso tanto.
Le invasioni barbariche, organizzate in giacca e cravatta, vanno di moda: fanno poco rumore, grazie al silenziatore messo ai media che dovrebbero vigilare, e realizzano dividenti interessanti.
Lo sport è solo uno strumento per arrivare in fretta al risultato; come a Vancouver dove testimoni diretti ci hanno raccontato dello sbarco russo: lo stile, inconfondibile, è quello eccessivo ed inquietante del nuovo liberismo orientale. Un cocktail da coma etilico di antiche reminescenze staliniste abbinate al furore iconoclasta dell’ultracapitalismo da napalm: disumani, bizzarri ed arroganti. Se nello stile paiono un derivato della feroce Solntsevskaya Bratva, l’azione è quella dei voivodi che ammazzavano, scuoiavano e pasteggiavano con le cervella del nemico. Pressioni indebite sugli atleti, soprattutto i biatleti, volontà egemoniche sul resto delle delegazioni e atteggiamenti degni di “Eastern promises”.
Valigiette affidate al personale impaurito, magari con 300000 verdoni all’interno, cenetta per pochi intimi da 60000 la sera del Canada-Russia hockeistico. Abbiamo pensato a ciò che potrebbe accadere a Sochi nel 2014 e, terrorizzati, ci siamo rifugiati nel ricordo accogliente di un genio dell’allora Unione Sovietica: convinti che i soldi, se proprio si devono sprecare, è meglio affidarli ad un creatore di cumulonembi come Tarkovsky.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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