Ripetenti all’ultimo Banchi

4 Luglio 2013 di Stefano Olivari

Andrea Bargnani ai Knicks può diventare il primo italiano nella NBA a giocare in una squadra davvero da titolo, nonostante la sua fama in America sia ai minimi storici e che non si sia letta analisi, sull’operazione con cui i Toronto Raptors se ne sono liberati (ricevendo in cambio Novak, Camby, Richardson e tre scelte non da urlo), priva di considerazioni del genere ‘Aaahh, se nel 2006 avessero scelto al suo posto Aldridge, Gay, Roy, eccetera…’. In una squadra con una stella mangiapalloni come Carmelo Anthony e con l’altra stella, Stoudemire, ridimensionata dalle condizioni fisiche, Bargnani può essere tante cose: soprattutto un quattro che tolga pressione a Melo, potendo segnare in ogni modo possibile ed essere protetto difensivamente da Chandler. Un terzetto meglio assortito rispetto al Turkoglu-Bargnani-Bosh che fece sognare Toronto per una sola estate. Ripensando ai Mavs 2010-11, forse a livello tecnico lo stantio paragone con Nowitzki può essere rispolverato. Manca tutto il resto, ma qui il protagonista non deve essere lui.

Cosa porterà Luca Banchi a Milano? O meglio: perché dovrebbe riuscire dove hanno fallito Scariolo, Bucchi e l’immaginetta di Peterson? Tanto per rimanere nell’era di Armani proprietario e non solo sponsor… Con tutto il rispetto per l’asse Gentile-Langford, la principale arma italiana di Banchi sarà l’ulteriore ridimensionamento di Siena: non è ancora chiaro in quale misura, perché Minucci è uno specialista del piagnisteo preventivo, ma di sicuro con tagli da rendere inimmaginabile la costruzione di una squadra con ambizioni di Eurolega. Insomma, per uno scudetto che manca dal 1996 (Tanjevic in panchina, Gentile padre in campo, piena era Stefanel) può essere sufficiente la scomparsa degli avversari e di Alabiso. Quanto a Banchi. omaggiato da sedicenti ultras (gli ultras nel basket: ma perché?), come gli altri tre allenatori delle semifinaliste ha lasciato una panchina dove aveva fatto bene solo per questioni di soldi. Non è una colpa, anzi, ma nemmeno un biglietto da visita che possa esaltare i nuovi tifosi. Anche perché, nascosti dietro i cespugli, stanno per tornare fuori (già a novembre?) quelli che scrivono cose del genere ‘A Milano interessi solo se vinci lo scudetto’ in alternanza con editoriali sulla mancanza di cultura sportiva.

Nella pallacanestro italiana gli addii sono di solito cialtroni, sottoforma di mancato pagamento di stipendi, ma a volte sono annunciati. L’ultimo è quello di Cantù, dove i Cremascoli si sono lamentati per la vicenda palazzetto e per la fuga degli sponsor nonostante negli ultimi anni la squadra sia sempre stata in alto (appena sfiorata la finale scudetto, nonostante la cessione a stagione in corso di Markoishivili, cioé il miglior giocatore della squadra, e l’ingaggio di un Mancinelli non proprio con gli occhi della tigre: è bastato Ragland per sfiorare la finale scudetto…). Se qualcosa non si muove il 2013-14 sarà l’ultimo giro per loro a Cantù ma anche per Cantù stessa ad alto livello. Il club europeo più titolato in rapporto al bacino di utenza, oltre che uno dei più titolati in assoluto, rischia quindi di fare la fine di Biella e di tante altre realtà, anche bene amministrate. La premessa è la solita: la pallacanestro non è un genere di prima necessità, tantomeno quella professionistica. Detto questo, la lamentela va divisa in due parti. La prima, quella sul palazzetto, può riguardare i costi di gestione ma certamente non i ricavi. Tranne che in partite di cartello di Eurolega e nei derby con Milano, è impossibile che a Cantù ci siano più di 4mila persone interessate a questa squadra: non è che il Pianella tolga chissà quali introiti, quindi. Più fondata la lamentela sugli sponsor: nell’ultima stagione Cantù ne ha avuti di principali ben quattro (CheBolletta, FoxTown, Lenovo e Mapooro) sulle maglie, non tutti paganti, ed ha difficoltà a trovarne per la prossima. Il pool di aziendine locali non permette sogni di gloria, l’economia reale è in picchiata ben oltre le statistiche (nessuno guarda più al futuro, atteggiamento fondamentale per chi voglia investire in immagine) e Cantù non ha protezioni politiche tali da far arrivare aziende parapubbliche: un ente locale, il pecorino della situazione, una municipalizzata. La pallacanestro è un’attività in perdita, in Europa a qualsiasi livello si è in zona ‘ricco che ci mette i soldi’. Non è quindi che il Fenerbahce o l’Olympiakos abbiano inventato un modello finanziario sostenibile e che a Cantù o Montegranaro siano cretini. Conclusione? I tempi sono davvero maturi per l’azionariato popolare: 4mila tifosi canturini che si autotassino di 250 euro (cinque serate in un ristorante medio) all’anno possono dare alla prima squadra un budget almeno da lotta per la salvezza. Il resto verrebbe da sponsorelli, incassi, altre donazioni, senza bisogno di sperare nei regali dei Cremascoli. Questa la teoria, la pratica è che questo schema non ha funzionato nemmeno con la Fortitudo Bologna ed abbiamo seri dubbi sulla sua applicabilità a Milano o Roma, nel caso Armani e Toti si defilassero. Non esistendo diritti tivù significativi, il record della serie A è ancora quello dopato da Gianni De Michelis (ai tempi presidente di Lega) di 5 milioni di euro (dieci volte l’incasso attuale) a stagione di fine anni Ottanta-inizio Novanta, l’alternativa all’azionariato popolare è al momento solo il mitico ‘patron’. Figura sempre più rara, anche in Brianza. Cantù ai canturini, non è solo uno slogan ma proprio la differenza fra la vita e la morte. Pochi soldi (magari quelli svincolati dall’abbonamento a Sky, se davvero non proporrà più basket), in questa o in altre piazze, eviterebbero lacrime di coccodrillo.

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