Quebec Metal

12 Ottobre 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
L’isolamento forzato talvolta genera mostri: se si cresce a Jonquière, nel Quebec più profondo, smarriti tra fabbriche di carta e altre di alluminio, si aguzza l’ingegno suonando musiche aliene agli stereotipi imperanti. Chiusi in cantina mentre fuori nevica, potreste creare un immaginario che vi porti in un’altra dimensione. I Voivod rappresentarono, nella seconda parte degli Ottanta, la propaggine più estrema e stravagante del tornado thrash che investì Europa e Nord America. Golem metallico indefinibile, vissero loro malgrado ai confini del boom commerciale che sdoganò quel fenomeno virulento, iconoclasta, che fu l’apocalisse del genere heavy metal.

In effetti il talento proteiforme dei Voivod divenne una dannazione per le case discografiche che li ospitarono, a conferma che l’unicità e la singolarità rendono inafferrabili (come il mistral) la bellezza ossianica di certe proposte artistiche. I quattro canadesi, talmente francofoni da coniare nuove parole in un inglese francesizzato, partirono da una concezione musicale rozza e forgiarono, attraverso una crescita tecnica impressionante, un’identità autoctona, spiazzante.  Le origini granguignolesche del nome tradiscono la genesi adolescenziale, essendo i voivodi una popolazione barbarica che celebrava la conquista di un territorio nutrendosi delle cervella degli indigeni sconfitti…
Gli inizi cacofonici di “War and pain” (1984), ispirati dal suono postmotorheadiano dei circensi Venom, divennero la base (stravagante) di un’evoluzione folle, imprevedibile. La loro biodiversità era già evidente, anche negli assalti primordiali di quel vinile ingenuo: gruppo dalla chimica complessa, fondato sulla leadership distratta del batterista Michel Langevin (Away nella dicitura anglicizzata), lo sciamano che creò (anche disegnandolo) pure il concetto di Voivod. Un essere metafisico che idealizzava, ad ogni prova, un’immersione tout court nell’esperienza proposta; così il tank marinettiano di “Rrroooaaarrr”, il secondo album della serie, si trasfigurò in un virus mutante nel profetico “Killing technology”, l’opera che ne stravolse definitivamente le trame armoniche.
Il thrash divenne il mezzo per esplorare le frontiere sonore più lontane, non solo il rock duro meno compromesso con l’airplay ma soprattutto la musica industriale, il progressive più cerebrale (King Crimson e Van Der Graaf Generator) e le derive rumoristiche del post punk.
E il drumming di Away, che incorporava oltre alla doppia cassa di ordinanza elementi percussivi tribali e jazz-rock, ne era il marchio di fabbrica con il basso distorto di Jean-Yvés Theriault (Blacky), uno dei pochissimi strumentisti in quel contesto con uno stile peculiare e riconoscibilissimo. Appoggiata su una sezione ritmica con pochi eguali, la chitarra di Denis D’Amour (Piggy) divenne il fattore scardinante dell’intero ensamble: le sequenze su accordi dissonanti, l’uso geniale dell’effettistica e un gusto straniante per le timbriche meno consuete ne fecero il pittore del suono.
Crooner divertito (…) dell’antimateria, il cantante Denis Bélanger (ovvero Snake) seguì gli altri tre nell’evoluzione abbandonando le urla alla Discharge. Lo scenario perfetto per l’ultimo ellepì inciso per la Noise (leggendaria indie teutonica), nonchè il primo capolavoro della serie, “Who’s god, who’s dog?”.
Stavolta Korgull divenne l’esploratore di un nuovo mondo, scaturito da un esperimento di un accelleratore di particelle che fa convergere due fasci di protoni ed antiprotoni; l’esplosione crea una nanogalassia che moltiplica le capacità psichiche di chi la visita… “Dimension hatross”, abbandonato a un universo che avrebbe inorgogliosito Lem e Dick, coniò la mistica dei Voivod; avanguardistici nel loro furore gelido, distaccato. “Experiment”, “Chaosmongers” (cabaret, Killing Joke, tarantelle e uppercut sonici in nemmeno cinque minuti…), “Technocratic manipulators” (un portento) esibirono una tale complessità strutturale, giocata sui cambi di ritmo e l’avvicendarsi dei pattern, da diventare immediatamente un culto.
La firma con una multinazionale, l’Mca, fu festeggiata con l’astrazione massima di “Nothingface”, il cui prologo è forse uno degli zenith espressivi del rock (?) negli ultimi trent’anni.
Il Voivod diventa virtuale, viaggia nei microchip ed espande il proprio pensiero: ispirazione talmente hofmanniana, purissima, da spazzare via qualsiasi dubbio sulle passioni lisergiche di Away (con quel nomignolo, poi…). Gli stop and go di “The unknown knows” e le progressioni sbalorditive della title-track. Cybermetal per le orecchie e i cuori. L’omaggio al Barrett di “Astronomy domine” fu quasi imbarazzante nel paragone tecnico; i canadesi la abbellirono a tal punto da suggerire a un navigatore della rete una conclusione beffarda: “I Pink Floyd sapevano scrivere musica…Alcune volte la scrivevano così bene che avrebbero avuto bisogno di qualcun’altro per suonarla. Eccone un esempio”. “Missing sequences”, di uno splendore extraterrestre, e “Into my hypercube”: troppo intelligenti per qualsiasi tipo di pubblico.
Nell’eccesso di alcune soluzioni, il seme dell’epilogo dell’epoca dorata che arrivò con lo straordinario “Angel rat”: fu l’ultimo atto di Blacky e delle poderose ragnatele ritmiche intessute con Away.
Sul retro della copertina, nelle foto promozionali, era già assente; curioso che la nuova strada percorsa, meno tortuosa nelle strutture compositive rispetto al passato recente, li affiancasse nella scelta a quella effettuata dai Metallica, i cugini nazionalpopolari della California…
Korgull nel 1991 era ormai un ideale astratto, psichedelico, e le canzoni di una bellezza onirica: “Clouds in my house”, maestosa, “The prow”, dal groove irresistibile; “Angel rat”, forse la gemma più incredibile nell’intero repertorio dei quattro. “Freedoom”, sfuggente, inenarrabile, come gli stacchi prodigiosi di “None of the above”, space metal con lo sguardo rivolto al ventunesimo secolo.
La produzione successiva, “The outer limits”, fu il primo lavoro che arrestò la crescita creativa del combo, apparsa fino a quel momento infinita; come se l’aver modificato la combinazione magica ne avesse mutato irreparabilmente lo standard qualitativo proposto.
Il disco, il settimo della serie, visse di un progressive metal ancorato agli stereotipi dei Seventies, gradevole ma antitetico alle geometrie surreali, rivoluzionarie, di qualche anno prima. Rimasero nell’ombra comunque, abbonati al destino dei precursori che vengono ignorati dalle masse. Oggi, la storia dei Wire dell’heavy metal è uno dei segreti meglio custoditi dell’universo rock; una miniera nascosta di gioielli luccicanti (dai poteri misteriosi..) che forse nemmeno Gustav Meyrink riuscirebbe a descrivere: a cinque anni dalla dipartita del povero Dennis D’Amour, il nostro omaggio alla devozione voivodiana è obbligatorio.
“I’m starboard to nowhere/ On the milky way
Howling wind, salty air/ Tearing at the sails
Looking down the crow’s nest/ Gliding in the sky
Without sound, going west/ Boating on the fly…”
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)
Video
1. Chaosmongers
2. Technocratic Manipulators
3. The Unknown Knows
4. Missing sequences
5. The prow
6. Angel Rat
7. None of the Above

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