Ogni maledetto film

9 Marzo 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Tutta la difficoltà nel portare al cinema soggetti sportivi: l’Europa ha di fatto lasciato perdere, mentre negli Stati Uniti la quantità ha prodotto anche qualità. Con Oliver Stone capace come nessuno di cogliere nel segno…

Mettiamola subito giù come fossimo Leonard Marshall che si avventa su Joe Montana: lo sport al cinema è disfunzionale; più il nostro sguardo è capace di cogliere le dinamiche di un gioco, meno perdoneremo la discrasia che mina le opere cinematografiche a tema. E’ anche e soprattutto una questione di pelle, perchè lo sport professionistico modifica la carne dei suoi primattori; mestieri come il ciclismo e l’atletica incidono sulla fisiologia delle persone coinvolte: diventa quindi un’impresa improba camuffare da campione un attore, magari bravissimo e volenteroso. Mancano la magrezza spartana, l’istinto del gesto, l’aggressività spontanea di quei riti codificati da più di un secolo di rappresentazioni agonistiche.
Inoltre, se si affronta la mistica di certe religioni senza Dio, difficilmente si possono raccontare le zone di buio morale che le abitano in pianta stabile: tutto ciò è evidente nel nostro rapporto con il calcio. Il pallone, malgrado sia il centro di gravità permanente tricolore da decenni, non è mai stato consacrato adeguatamente sul grande schermo e la motivazione va ben oltre la difficoltà di simulare la sua essenza liturgica, sacerdotale… In Italia infatti potremmo citare pochissimi casi isolati, estremi, che sono riusciti a cogliere l’attimo fuggente: “Ultimo minuto” di un Pupi Avati non ancora postumo in vita è la circostanza migliore. Esemplare nell’illustrare l’osceno di quell’ambiente, si avvale di un Ugo Tognazzi al solito inarrivabile; una maschera tragica che riassume, in un viso solo, gli Allodi e i Moggi di quel mondo. In aggiunta potremmo segnalare lo sperimentale, claustrofobico “Valzer”, spurio di immagini sul calcio giocato ma alle prese con l’aspetto luciferino dello stesso: una truffa studiata a tavolino in una stanza d’albergo, al riparo dagli occhi degli ingenui là fuori. Ma questa idiosincrasia congenita si avvale anche dell’ignoranza sportiva delle maestranze europee: riesce difficile, scrivendo di pedivella o di guantoni, non comprendere che la vita (e la morte..) di un Henri Pelissier non costituisca già una sceneggiatura pronta per l’uso.
Molto meglio il rapporto degli americani con il loro immaginario sportivo, soprattutto con il baseball e la boxe: l’arte nobile regalò interpretazioni straordinarie di attori ispiratissimi; puro metodo Stanislavskij quello applicato dal Robert De Niro di “Raging bull” al suo corpo. Non lontanissima da quelle vette l’Hillary Swank di “Million dollar baby”: entrambe le pellicole, grazie a maestri come Scorsese ed Eastwood, illuminano di una luce speciale i due protagonisti e le loro storie, ma sembrano evitare accuratamente di esplorare l’essenza di quei gesti sul ring. Lo sport come oggetto, ma non ancora soggetto.
Allora, dovessimo sceglierne uno, punteremmo diritti (senza molti dubbi) sul rivoluzionario “Any given sunday” di Oliver Stone. Un film che centra clamorosamente il bersaglio, accomunando l’estetica, epica, con l’etica, immorale, del giochino. Il regista, tecnicamente sopraffino, riesce nell’impresa fallita da altri: uccide cinicamente l’enfasi artificiale dell’evento, salvandone però la bellezza brutale e militaresca. Coglie perfettamente l’epos del football con riprese straordinarie nel cuore della partita; sono scene dove si intuisce l’amore folle del nostro per questo spettacolo gladiatorio favoloso; che si ciba dell’energia cinetica dei suoi cyborg, mutanti che riproducono una battaglia inumana. Ne descrive alla perfezione il significato ornamentale nella società statunitense: se il baseball è rurale, antico, nel suo dispiegarsi infinito e il basket è post-moderno, il luogo dove i ruoli si mescolano e si confondono, il loro football è industriale, fordista; una catena di montaggio basata sulla specializzazione di ogni lavoratore. Quindi Stone non ha scrupoli nel mostrare l’extra, ovvero l’immaginario circense e corrotto: per evitare problemi legali con la famelica Nfl, cancella ogni riferimento diretto a quell’universo, pur ricreandone (beffardo) la mitologia. Ecco allora una sfilata di atleti vittime del loro successo, circondati da un zoo di sanguisughe insaziabili: il doping come esigenza primaria, per sopravvivere nella giungla (i giocatori) o ribadire una scala gerarchica (il medico della squadra, impersonato da un sulfureo James Woods); i soldi come benzina o vaselina del rapporto cinico tra dirigenza e personale. Tutto ruota attorno alla figura nobile e patetica di Tony D’Amato, ovvero lo strepitoso Al Pacino, l’allenatore che prova disperatamente a mediare tra la sua concezione idealista del gioco e quella puramente affaristica della giovane presidente (una Cameron Diaz perfetta nel ruolo). Alcuni dialoghi sono geniali nel ricreare l’afasia nei rapporti umani tra il coach e i suoi; come l’imperdibile confronto tra Tony e lo scalpitante Willie Beamen (Jamie Foxx): quando, per impressionare il quarterback afroamericano, prova a coinvolgerlo in una discussione sul jazz degli anni sessanta, questi gli fa capire di essere interessato solo al gangsta rap dei suoi coetanei…
Il relativo insuccesso al botteghino di “Ogni maledetta domenica”, negli States, è il segnale evidente che il film ha colto nel segno: troppo avanguardistico nel proporre un’altra visione (quella giusta?) di un passatempo nazionale sacro ed inviolabile, il lungometraggio ridefinisce finalmente i confini dello sport nella sua corrispondenza, incestuosa, con il cinema.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

Share this article