Non ci sono più i rimbalzi di una volta

21 Giugno 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
In attesa della Regina, che arriverà il 24 Giugno sul Campo Centrale, a Wimbledon aspettiamo nuove dal Re e dal Principe: Championships numero 124 all’All England Club, ladies and gentlemen, nel tempio che Giorgio Bassani definì il Vaticano del tennis. Ci arriviamo perplessi, consci di aver visto l’unico vero torneo erbivoro al Queen’s; ironico ma nemmeno tanto, il manto sempre più mediocre di Wimby lo ha trasformato in un evento, beninteso il più prestigioso del mondo, molto meno peculiare rispetto a qualche anno fa.
Quella pallina che rimbalza più alta e meno incontrollabile rispetto ai giorni di Edberg e Becker (ma anche quelli di Rafter e Ivanisevic) ne ha omologato e cancellato la diversità secolare: ancora sei-sette stagioni orsono il serve and volley premiava gli artisti che lo osavano; oggi gli scambi, soprattutto nella seconda settimana, sembrano una riedizione eccentrica di una competizione su erba battuta. Ne conveniamo che è un paradosso molto britannico, sempre gli stessi del “Never on Sunday” e dell’inchino al Royal Box. Ci ricorda il genio beffardo di un cinese con lo sguardo rivolto verso occidente, Chen Zhen, che ideò un’installazione guscio con all’interno un monolite evocativo. “Prayer wheel/ Money makes the mare go” aveva al centro, come oggetto di venerazione, una collezione infinita di pallottolieri e calcolatrici antiche: ecco, quella tecnologia trapassata che ci faceva notare lo scorrere inesorabile del tempo è come Wimbledon.
Modernariato chic, costosissimo, ma anche al di fuori degli standard odierni: il prologo australiano e soprattutto l’epilogo americano, negli Slam, esprimono i veri valori tecnici dell’Atp contemporanea.
Brutti, sporchi, strapotenti e cattivi; ma molto meno ipocriti delle chiese (mausolei?) parigine e londinesi. Per tornare al Queen’s, è bastato un prato vagamente old style per sottolineare le difficoltà di adattamento dei cosiddetti top player; parafrasando Totò, al posto delle vacche c’è stata una morìa delle teste di serie. Il Nadal pentacampeon sull’argilla era vagamente spaesato; smash comodi sbagliati, una posizione sul campo da ipovedente, una difficoltà inquietante a raccogliere i back dell’amigo Feliciano Lopez. Conoscendo Rafa, e osservando un tabellone difficile ma non impossibile, siamo sicuri che per la terba sia prontissimo; la cazzimma del soggetto è nota e le caratteristiche tecniche (malgrado tutto) preferiscono questa superficie al cemento yankee, duro e con i palleggi troppo alti per le sue ginocchia a rischio infortunio. Il Vampiro Andy Murray, croce e delizia britannica, è dalla parte del manacorino nel seeding: trattasi di all around che avrebbe i colpi e le angolature giuste per l’evenienza, ma continuiamo a non comprendere quel remare stupido a tre metri dalla riga di fondo.
Il Federer ammirato (una battuta..) ad Halle è un giocatore in declino e non ci riferiamo solamente alla sconfitta in finale contro Pugnetto Hewitt
, antico vessato di Federerlandia, ma all’impressione agonistica delle sfide tedesche. Vantando un margine tecnico su tutti, quella domenica sarebbe bastata la trasformazione di una delle tre palle break per issarlo sul 5/3 e un set avanti.
Il problema però, ancor più chiaro nella semi contro Petzschner, è l’inconsistenza apparente dell’elvetico: il servizio leggibile e poco vario, una bestemmia per uno come lui, gli spostamenti a destra così così e tante imprecisioni. Lo stesso che il dì prima, contro l’eccellente Kohlschreiber, aveva prodotto almeno trenta minuti di serve and forehand impeccabili: è appunto una spia dell’imbrunire atletico, l’incapacità di mantenere un livello qualitativo degno della fama luccicante del passato per più di due giorni consecutivi. Rimane comunque l’icona di Wimbledon per eccellenza, alla ricerca della settima sinfonia (eguaglierebbe Pietrino Sampras), nonchè il favorito dei bookmaker e della logica; ma la classica Mago Merlino-Nadalito potrebbe anche non disputarsi.
In un momento di transizione, ci fideremmo di outsider all’ultima occasione come il Fuciliere Roddick: sarebbe un premio alla carriera meritatissimo dopo il 14-16 strappacuore del 2009.
Come l’Andy Decker, dal versante federeriano del sorteggio ci sono un paio di mine (stra)vaganti: in primis Tommasino Berdych, che ha l’arsenale sull’erba per cancellare il duopolio Ro-Ra, e poi il meraviglioso Michael Llodra, il transalpino (fresco vincitore ad Eastbourne) ultimo autentico esponente del tennis d’attacco che fu. Il lato presidiato dal maiorchino e dal britannico, che diventerà scozzese in caso di sconfitta, vanta tre bounty killer da tiro a segno: Quercia Isner, Boscaiolo Soderling e Pertica Isner; inaffrontabili in un pomeriggio da dodici aces a set.
La vernice del buon Nadal avrà come co-starring il nipponico Kei Nishikori, giovane talentuoso
reduce da un’operazione chirurgica complessa (al gomito destro) ma che attendiamo in futuro ai livelli che competono a un braccio dorato come il suo. Se poi il bimbo aussie Tomic, Mister Bad Boy, ci desse un segnale di nuove pretese egemoni (in attesa anche del kid bulgaro Dimitrov) noi ne saremmo contenti: la visione di un paio di fenomeni caduti in disgrazia della precedente generazione, uno in pantaloncini l’altra in gonnella, ci ha tuffati in una nostalgia byroniana.
E’ un segno dei tempi e di un circuito granguignolesco che non perdona cali e pause di riflessione
: il geniale Xavier Malisse, all’alba del secolo nuovo (2002), buttò nel cesso una semifinale di Wimbledon contro la Nalba (un altro deviante..). Rivederlo recentemente in forma discreta, senza la pancetta classica da birra, ci ha illuminato di immenso: basta qualche scambio con i suoi colpi da biliardo per riconciliarci con quelli che furono, un tempo, i gesti bianchi. Bambini prodigio che fanno la fine di Baby Jane, magari a causa di un padre padrone violento e folle: fu il caso di Mirjana Lucic, la croata che nel 1999 (a diciassette anni) fece semi contro la Graf. Steffi la indicò come una dominatrice futura della Wta e quell’incontro (perso 7/6 4/6 3/6) sembrò il primo passo verso una carriera da super; il resto, invece che un’apologia del power tennis rosa, fu un manuale dei problemi famigliari di una star adolescente: ritrovarla da giovane donna ancora sul campo, magari vincente in un minor, ci ha fatto piacere.
Dovremmo anche discernere di bambole, per galanteria, ed è obbligatorio ricorrere allo stereotipo fesso delle Williams favorite:
negli altri major è un’idiozia, perchè Serena (tabellone pessimo) è la campionessa che non è mai stata Venus, ma per Wimby è la verità assoluta. Siamo curiosi di assistere al rientro della Henin, che è di nuovo in pista solamente per il piatto che consegna la Duchessa di Kent, e della Sharapova; prevediamo qualche sorpresa dall’enigmatica Rezai, dalla saggia Na Li (attenti, ha un bel corridoio..) e dall’amazzone Kanepi. Primo incontro da sorvegliare, l’incerto Wickmayer-Riske (segnatevi questo nome).
Speranze azzurre? Dopo La Grande Bouffe parigina si conta sul quantitativo delle ragazze:
sia Pennetta che Schiavone hanno avversarie toste al primo turno (rispettivamente Medina Garrigues e Dushevina) ma ben poco da perdere vista la superficie sfavorevole, soprattutto per la vincitrice del Roland Garros. Magari la Leonessa, in piena overdose da esposizione, avrebbe dovuto risparmiarci le sue grazie (..) vendute generosamente per il Debordesco “Chi”: ma è solamente un problema nostro, ancora convinti ingenuamente che apparire non significhi essere. Ci aspettano comunque due settimane di magia ottocentesca, immersi nel verde di quel panorama fragole e panna: le Doherty Gates apriranno i cancelli anche al nostro amore per il gioco. Fifteen love.

Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)
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