Manifesto degli anni Ottanta, l’ultima finale europea di Dražen Petrović

20 Dicembre 2015 di Stefano Olivari

Copia di Gli anni di Drazen Petrovic (copertina)L’ultima finale di una coppa europea con Dražen Petrović in campo si gioca martedì 14 marzo 1989 ad Atene, nell’ormai familiare Palazzo della Pace e dell’Amicizia. Ad arbitrare il solito Rigas e lo jugoslavo Kurilić, l’avversario è la Snaidero battuta due volte nel girone e che in semifinale ha eliminato lo Zalgiris. Privando l’Europa di un’altra sfida Petrović-Sabonis ma proponendo al Real una squadra emergente, costruita da Tanjević e portata avanti da Franco Marcelletti. Vi impera ancora Oscar, anche se in Italia molti gli hanno già attaccato da tempo il cartellino di perdente, preoccupato più delle proprie statistiche che della squadra. Due squadre votate all’attacco, che cominciano dando l’impressione di non sbagliare mai. I primi minuti della finale sono una sorta di manifesto del basket europeo anni Ottanta, un basket che fa innamorare anche i non tifosi e dove ad alto livello chi ha lacune tecniche fa davvero fatica a stare in campo.

Dražen parte piano lasciando la scena a Rogers e Biriukov, con i due fratelli Martìn (Fernando gioca con un dito della mano destra infortunato) che subiscono il dinamismo a rimbalzo di Dell’Agnello e Glouchkov. Rogers inizia tirando benissimo, così come Oscar. Petrović ha sempre in mano il pallone, ormai anche al Real Madrid se ne sono fatti una ragione, ma non esagera. Quando vede che Oscar e Gentile stanno prendendo in pugno la partita decide però di intervenire, complice anche il passaggio a zona della difesa casertana. Dražen spara cinque triple di fila, è una della sue serate magiche. Anzi, di più. Primo tempo 60 a 57 per il Real Madrid, potrebbe essere tranquillamente il finale di molte partite di oggi (ed il limite per azione era di trenta secondi…). Il Real va avanti di 12 ma a quel punto Marcelletti ordina una zona 3-2 molto aggressiva che manda fuori fase i giocatori del Real. Tutti tranne Dražen, che continua a guadagnare falli e tiri liberi. Si gioca punto a punto, con Oscar che segna la tripla, da distanza NBA, del 102 pari a 18 secondi dalla fine, nonostante Cargol gli sia letteralmente addosso: non proprio un gesto tecnico da perdente. Petrović gestisce l’ultimo possesso, ma lo fa male e Gentile ruba il pallone andando poi a subire un fallo di Biriukov. Tiri liberi? Per diversi minuti il dibattito è aperto, in mezzo a schiaffi e insulti incrociati, poi Rigas in base a non si sa cosa (certo non esisteva l’instant replay) stabilisce che il fallo è avvenuto a tempo scaduto. Supplementari, con Petrović che prende in mano la situazione e segna 11 punti dei 15 del Real. Finisce 117 a 113 una delle più spettacolari partite della storia europea, con minirissa finale fra Petrović e Gentile.

In questo libro evitiamo di esagerare con le statistiche, rintracciabili ovunque, ma stavolta dobbiamo fare un’eccezione: Dražen finisce la sua settima finale di una coppa europea con 62 punti: 12 su 14 da due, 8 su 16 da tre e 14 su 15 ai liberi. Con il Real Madrid, la Spagna e l’Europa ai suoi piedi. Negli occhi di Oscar, 44 punti, e Gentile, 34, ci sono lacrime non metaforiche. I compagni di Dražen, in particolare Fernando Martìn, dovrebbero ringraziarlo, visto che Caserta ha dominato ai rimbalzi (un pazzesco 47 a 22…) e costretto il fenomeno del Real a superarsi. Invece Fernando nelle interviste post-partita non trova di meglio che lamentarsi: “Siamo contenti per la coppa, ma abbiamo giocato male. Non siamo una squadra”. Ha giocato con un dito della mano destra rotto, non si è sentito ringraziato da Dražen per il sacrificio e ci è rimasto male. Questo non toglie che Real-Snaidero sia uno dei pochi eventi sportivi della storia a rimanere guardabili anche a distanza di decenni, una partita quasi commovente nel suo raccontare l’epoca migliore del gioco.

Nemmeno la vittoria europea fa però entrare Dražen nel cuore dei compagni. Del resto lui non è mai stato bravo a fare gruppo, in alcun contesto: al Šibenka era il ragazzino terribile, al Cibona la stella in un’ottima squadra che aveva bisogno di lui per diventare grande, nella Jugoslavia l’unico campione della sua generazione. Dražen ha i suoi amici, quasi tutti peraltro legati al basket, non sente il bisogno di arruffianarsi i colleghi. E anche a Madrid funziona così. Fra l’altro detesta i locali, a qualsiasi ora e a maggior ragione di notte, non beve alcolici e non gli piace nemmeno stare in contesti in cui la gente sta con il bicchiere in mano e perde tempo, parlando di argomenti che non lo interessano: cioè tutti gli argomenti, pallacanestro esclusa.

La sua Madrid è rappresentata dall’appartamento a La Vaguada condiviso con la fidanzata Renata e dal campo di allenamento. Nella casa spagnola non ha nemmeno il telefono, ritiene che lo deconcentri e in ogni caso non gli serva: ogni giorno chiama i genitori e Aco dagli uffici del Real Madrid, mentre quando il club gli deve comunicare qualcosa, in genere una variazione dell’orario dell’allenamento, usa il suo vicino di casa Villalobos che va poi a bussargli alla porta. Gli unici del Real con cui ha rapporti umani, peraltro ridotti al minimo, sono lui e Rogers. E in campo si vede, anche in positivo: tre quarti dei tiri facili dell’americano nascono da scarichi di Petrović dopo essere stato raddoppiato o triplicato. I genitori lo vengono spesso a trovare, lo fanno anche l’ultimo dell’anno 1988. Non che si aspettino grandi festeggiamenti, conoscendolo, ma nemmeno che lui vada ad allenarsi da solo prima di una frugale cena con loro e Renata, con ritirata in camera da letto a mezzanotte e un minuto.

Al di là degli aneddoti, l’anno di Madrid è fondamentale nella trasformazione di Dražen. Perché si deve riprogrammare non soltanto come persona, in un ambiente oltretutto ostile, ma anche come giocatore. Nel Cibona si difendeva a zona, in certi momenti zona pressing, oppure non si difendeva limitandosi a battezzare gli avversari più scarsi: un eccesso di confidenza pagato a volte in maniera dolorosa, soprattutto in patria. Nel Real Sainz gli chiede anche difese individuali con buona intensità: Dražen esegue, facendogli però notare che così perde efficacia in attacco. Sainz vede che i fondamentali difensivi del croato sono più che buoni, al punto di poter marcare anche avversari di struttura fisica molto diversa, quindi insiste. Di sicuro a Petrović pur essendo introverso non manca la capacità di comunicare, quando vuole: il suo spagnolo è comprensibile già dopo qualche settimana, nelle interviste non ha bisogno di interpreti.

Alla fine l’unico vero problema di Dražen al Real Madrid è che l’ha sempre considerato una tappa intermedia prima della NBA, non un punto di arrivo: e questo in Spagna, al di là delle vittorie con il Cibona, non glielo hanno mai perdonato. Molti anni dopo Spahija spiegherà l’atteggiamento di Dražen: “Gli chiesi perché volesse lasciare l’Europa, dove era un idolo, per andare in una realtà che non conosceva e dove sarebbe ripartito da zero. Mi rispose che se non avesse accettato questa ultima sfida non se lo sarebbe mai perdonato, senza la NBA la sua carriera non sarebbe stata una vera carriera. Adesso sappiamo tutto della NBA, un giocatore europeo forte sa che ce la può fare, ma all’epoca non era così. Dražen, apparentemente così preciso e metodico, non poteva vivere senza sogni”.

Estratto del ventitreesimo capitolo del libro ‘Gli anni di Dražen Petrović – Pallacanestro e vita’, di Stefano Olivari. La versione cartacea, 250 pagine, è in vendita sul sito della Hoepli e fisicamente in tante librerie: la stessa Hoepli, la Libreria dello Sport, gran parte delle Feltrinelli e moltissime indipendenti. Prezzo dai 17 ai 20 euro, a seconda dei rivenditori. Disponibile anche a 6,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, per iTunes di Apple (quindi iPad, iPhone, iPod Touch e Mac), Kobo di Mondadori e per tutti gli altri eReader attraverso la piattaforma di BookRepublic. Distributore in esclusiva di questo e degli altri libri di Indiscreto: Distribook srl.

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