Lontano dai comprimari

24 Settembre 2010 di Jvan Sica

di Jvan Sica
Mourinho non è un allenatore, una persona come le altre che in televisione vediamo dal mattino alla sera. Sa capire cosa stia facendo senza l’obbligo di dimostrare di essere Mourinho, quello che la domenica sbraccia davanti alla sua panchina. Riesce a comprendere l’ambiente in cui si trova, le situazioni che deve affrontare e a soppesare la gente che gravita nel suo mondo, predisponendo se stesso e incanalando gli altri verso quello che lui vuole.
Una capacità magnetica che hanno avuto pochi e che oggi sembra latitare nello scintillio della pochezza mediatica da cui prendiamo i riferimenti. Abbiamo seguito per una settimana intera Mourinho nel suo nuovo regno madridista e tutto quello che abbiamo premesso ci è apparso con grande evidenza. A Milano doveva essere il capopopolo, il ribelle con lo scettro in mano, un signore che doveva far splendere sempre di più una squadra di battuti, nonostante vincesse da alcuni anni anche con Mancini. Per essere vincente all’Inter serviva solo vincere tutto e ci è riuscito facendosi amare alla follia.
A Madrid invece Mourinho è l’espressione del potere, non è più un principe in cerca di nuovi possedimenti ma il re che da sempre domina lande sconfinate in Europa e nel mondo. Da re non può più fare crociate improvvisate, non fa salire nessuno al suo livello per lo scontro quotidiano a cui eravamo abituati, non concede alibi che non siano aristocratici (la pochezza del gioco non ha creato polemica ma è stata scusata, con gentilezza e tatto, dall’intenso inizio di campionato dopo la preparazione).
All’Inter Mourinho non aveva nemici fissi ma solo comprimari, da denigrare per far accelerare nei loro confronti l’odio del proprio esercito. Ranieri è odiato dagli juventini perché gli ha lasciato troppo spazio di manovra dialettica, Mancini non esiste più per gli interisti dopo alcune parole poco nostalgiche del portoghese, Ancelotti se ne è andato con i milanisti che hanno pianto appena cinque minuti. Nessuno reggeva la personalità di Mourinho e in Italia chi dimostra debolezza è messo da parte.
A Madrid invece ha un nemico, quasi unico, che non s’incarna in una persona (non è Guardiola, che è troppo amato, per cui una guerra contro di lui creerebbe solo ricompattamento ancora più forte delle fila invece dello sfilacciamento juventino e milanista) ma in un universo che deve cercare di debellare dalle fondamenta: dal valore dell’estetica nel calcio a favore della concretezza. Le interviste che abbiamo letto vanno proprio in quella direzione: il Real vince nella storia e nel futuro perché sa cosa vuol dire giocare al pallone, il Barcellona ha vinto molto meno perché pensa che il calcio sia una disciplina sottoposta alla votazione di una giuria di tecnici.
Mourinho è pronto per la sua nuova avventura che non sarà più a base di scontri verbali e tirate contro i singoli. La sua sfida da questo momento è filosofica: dimostrare che nel calcio la bellezza è nella vittoria, senza cedimenti fascinosi a niente altro.
Jvan Sica, da Madrid
(per gentile concessione dell’autore, fonte: Letteratura Sportiva)

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