Lasciamo stare i figli

19 Gennaio 2009 di Stefano Olivari

1. Lo schema del calciatore mercenario è riuscito male, ma stavolta ha fallito anche quello del Galliani cattivo. Tutto il mondo ha capito che Silvio Berlusconi ha dato l’ok alla vendita di Kakà, per tanti soldi (da un minimo di 108 milioni di euro ad un massimo di 150, si è sentito di tutto ben prima della smentita tattica del proprietario del City: a nessuno piace passare per un ricco coglione, mediaticamente di peggio c’è solo il coglione povero) e possibilmente non ad una diretta concorrente: il Real Madrid ambito dal giocatore saprebbe di smobilitazione. Galliani è lo stesso Galliani che nell’estate 2001 con un bilancio quasi in pareggio ebbe il permesso di buttare 80 miliardi di lire nel piatto di Cecchi Gori per avere Rui Costa, spende più o meno bene i soldi che può permettersi di spendere. E a dirla tutta, anche Marina e Pier Silvio, i figli maggiori del proprietario del Milan, senza il padre semplicemente non esisterebbero nè come imprenditori né come dirigenti: sono impiegati, con influenza sulla gestione ma non sulle strategie di fondo. Insomma, anche gli ‘ordini’ dei figli sembrano una colossale invenzione.
2. Le ragioni di questa svolta, al di là di dove giocherà Kakà settimana prossima (abbiamo scommesso, nel vero senso dell’espressione, sul Milan), risiedono solo nella testa di Berlusconi: annuncio di smobilitazione, sensazione personale che Kakà sia in declino, cattivi consiglieri, tardivi progetti di autofinanziamento (va detto che calcolando il lordo dei quattro anni e mezzo residui di Kakà, fra incasso e mancati esborsi il Milan avrebbe un beneficio diretto di circa 200 milioni: in pratica il fatturato di un anno) o la solita voce del futuro ‘leghista’: quel ‘Milan dei lombardi’, più volte vagheggiato nelle cene del lunedì ad Arcore, ma che si scontra con contratti pubblicitari pluriennali e soprattutto già firmati con aziende dall’orizzonte che va oltre Segrate ed Arluno. Galliani e l’amico Bronzetti sono colpevoli di tante cose, ma non della presunta vendita di Kakà.
3. Lo show di Luciano Moggi da Vespa è stato commentato un po’ da tutti, con posizioni ovviamente differenti a seconda del bacino di utenza. E’ però curioso che la Gazzetta dello Sport abbia affidato il compito non ad uno dei suoi giornalisti, ma ad un collaboratore che oltretutto di solito interviene solo su temi tecnici: Arrigo Sacchi, che ha criticato l’ex direttore generale della Juve pur fra vari distinguo. Sabato si è letta la replica di Moggi su Libero, con il solito argomento: così fan tutti. Perché l’anno scorso la Roma doveva vincere lo scudetto (motivazione moggiana: l’ha detto anche la vedova Sensi, descritta come una non di parte) ed il Milan di Sacchi vinceva anche perché Baresi alzava il braccio a chiamare fuorigioco inesistenti. Tutto può essere, ma è interessante che il primo quotidiano sportivo d’Italia non voglia prendere una sua posizione su una vicenda che agli appassionati di calcio interessa molto. Forse non è un caso che nelle varie autodifese di Moggi, compreso il brutto libro ‘Un calcio nel cuore’, manchi clamorosamente il file ‘giornalisti’ che pure nelle intercettazioni aveva un peso notevole. Colpe annacquate nel quadro di un racconto generale ed in avvocatese della vicenda, successi giudiziari esaltati con slogan più diretti e meglio recepibili al bar: meccanismo in verità più delle televisioni (anche pay: memorabile la Moggi’s list, da lui stesso enunciata, di suoi miracolati a Sky) che dei giornali. Strategie sottili, carriere (ammesso che reggere un microfono senza fare domande sia una carriera) con un perché.
4. Dolce & Gabbana sono colpevoli della divisa del Milan da becchino, ma anche, secondo quanto dichiarato ieri da Giorgio Armani, di avere copiato un suo pantalone. Uno scazzo pazzesco, che i cronisti di settore hanno riportato. La prima notizia è proprio che l’abbiano riportato, ma qui la spiegazione c’è: Dolce & Gabbana disprezzano la maggior parte dei giornalisti mentre le pubbliche relazioni di Armani sono più per così dire più soft. Insomma, le poche volte in cui abbiamo dovuto occuparci della materia (del resto per vivere compiliamo anche i tabellini del Falkirk, lo snobismo non ci riguarda) abbiamo notato che nella stampa specializzata i tifosi di Re Giorgio siano più numerosi di quelli del dinamico duo. La notizia bis è che Beckham e Kakà (ieri opportunamente assente alla sfilate di Emporio Armani, e ancora non sapeva della tragedia avvenuta nella sua chiesa di San Paolo) siano stati presi in mezzo: strapagati da Armani ma nella vita professionale costretti ad indossare D & G. Forse fra poco non avrano più problemi di questo tipo.
5. Il licenziamento di Mario Brozzi da medico sociale della Roma potrebbe essere archiviato come la solita storia di dissidi ed incomprensioni fra allenatore e staff sanitario (dalle vette di ManciniCombi a situazioni molto più comuni): il tecnico spinge per avere i giocatori prima possibile e da ex giocatore pensa sempre che facciano i furbi, il medico pensa alla salute dei pazienti e più concretamente alla propria reputazione. Senza entrare nel merito del recupero di Tonetto o di tanti altri, dove le versioni sono troppo di parte, due piccole considerazioni. La prima. Brozzi ha affermato che non vuole che si metta in dubbio la sua professionalità da persone che non hanno competenza per giudicare, ma con questo metro solo gli avvocati potrebbero scrivere articoli sulla giustizia o i salumieri sul mercato del prosciutto cotto. Un medico può insomma essere criticato anche da chi non è laureato in medicina, fosse Spalletti o l’ultimo collaboratore di Forza Lupi. Seconda considerazione. Brozzi è stato fatto oggetto di un linciaggio indegno da parte di alcuni media romani, esempio di marketing ma in alcuni casi anche di delinquenza verbale. Fatto sta che, come ha denunciato lo stesso medico, la figlia è stata aggredita all’uscita da scuola da tifosi che dopo averla simpaticamente chiamata ‘bastarda anoressica’ hanno iniziato a dire di tutto contro il padre. Non solo, ma la macchina della ragazza è stata omaggiata di una bomba carta. Questo nel calcio italiano il clima per chi non si uniforma o semplicemente non è simpatico a chi fa opinione su piazza, con l’avvertenza che nella bella e sana provincia funziona molto peggio che nelle metropoli.
Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it
(appuntamento a domani verso mezzogiorno)
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