Quando Zamboni svoltò

18 Gennaio 2013 di Stefano Olivari

Qualche giorno fa tutti noi compulsatori ossessivi di Google ci siamo trovati davanti a un doodle (traduzione: una grafica speciale, a volte con animazioni o giochi, per la homepage del motore di ricerca, in omaggio a un personaggio o a un evento) che ricordava lo Zamboni. Non solo la macchina per levigare il ghiaccio che chi ha visto almeno una partita di hockey (il nostro battesimo al Piranesi anni Ottanta, erano i tempi della serie B con il Saimex allenato da Ron Ivany e con in campo l’attuale presidente Ico Migliore) nella sua vita conosce, ma anche il suo inventore Frank Zamboni. Nato proprio il 16 gennaio (del 1901), con questa terra salutata un quarto di secolo fa, l’imprenditore-inventore ha creato e prodotto parecchi oggetti legati alla refrigerazione, ma l’immortalità se l’è guadagnata con la macchina che da oltre sessant’anni permette di sistemare le piste nei 10 minuti fra un terzo e l’altro di una partita di hockey ghiaccio. La biografia di Zamboni, nato ad Eureka (Utah) da una famiglia come direbbe Pizzul di chiare origini italiane, è rintracciabile ovunque e in questo periodo ci riesce faticoso anche il copia e incolla. In storie di successo come la sua ci incuriosisce sempre il momento in cui si passa da una onesta routine al successo mondiale. Perché nel caso della famosa macchina non parliamo di un colpo di genio, ma di un lavoro di assemblaggio e prove durato quasi dieci anni. Un periodo in cui quasi tutta la famiglia gli diceva di lasciar perdere, perché tanto ad hockey si giocava anche senza la sua improbabile invenzione. Con tempi di preparazione più lunghi fra un periodo e l’altro, almeno mezz’ora (ma non c’era la televisione e a casa non è che fossero così tante cose da fare, quindi il pubblico aspettava composto). La svolta arrivò sul finire degli anni Quaranta, con il primo cliente importante: i Chicago Black Hawks (così si chiamavano all’epoca, adesso sono Blackhawks), che la utilizzarono al Chicago Stadium, esattamente lo stesso Chicago Stadium dei primi anelli di Michael Jordan, e dopo poco tempo furono imitati dagli avversari. In un documentario televisivo di Espn abbiamo ascoltato un anziano giornalista di Chicago ricordare che all’inizio i dirigenti dei Black Hawks si pentirono della scelta, perché negli intervalli la gente e soprattutto i bambini impazzivano per le evoluzioni dello Zamboni e non andavano quindi al bar a consumare (di merchandising ancora non si parlava). Fuori dal mondo dell’hockey ghiaccio la diffusione dello Zamboni si deve soprattutto alla mitica (tre ori olimpici nel pattinaggio di figura, Sankt Moritz 1928-Lake Placid 1932-Garmisch 1936) Sonja Henie, la norvegese dalle mille vite, tutte di successo (attrice hollywoodiana, imprenditrice, collezionista d’arte, filantropa) e qualcuna anche maledetta (pur non essendo tedesca era uno degli sportivi preferiti dai gerarchi nazisti e partecipò a una cena privata invitata da Hitler in persona), che negli anni Cinquanta acquistò uno Zamboni per la sua compagnia itinerante, che per qualche tempo fece concorrenza a quell’Holiday on Ice di cui la Henje era stata peraltro una vedette e che è arrivato fino ai giorni nostri. E’ da allora che lo Zamboni è per tutti Zamboni e non Paramount, dal nome dell’azienda di famiglia poi anch’essa ribattezzata Zamboni perché nessuno chiamava Paramount la macchina. Primo e unico caso nella storia dell’universo di inventore costretto a dare il proprio nome alla sua invenzione contro la sua volontà.

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