La categoria di Morosini

15 Aprile 2012 di Anna Laura

Se mai avessimo il sospetto, avessimo la tentazione di appartenere ad un’altra dimensione, ci pensano i media a ricordarci la loro verità: siete di passaggio. La scelta di mostrare in maniera ripetuta, all’interno della stessa trasmissione, la morte sul campo di Piermario Morosini, va al di là del diritto (???) di cronaca. E’ il diritto ad ammonire che il fato esiste e lotta insieme a noi, più spesso contro di noi. Una vera e propria induzione negativa, anzi emotiva. L’andazzo mediatico insiste con interviste dolorose e addolorate, con dovizia di particolari ed intervento dei professionisti del cordoglio con il ricordo già in canna. Se posso dirlo, sono nauseata.

Di una nausea indeterminata e indeterminabile, a cui non voglio partecipare. Che senso hanno tutti gli esami medici? Che valore ha la prevenzione? Se Morosini ha fatto, e sono certa che ha fatto, tutte le analisi del caso, allora abbiamo il coraggio di dire che questa pretesa assicurazione, questo certificato di salute, la diagnostica non può e non deve darla? Emozione significa operare una azione sul sangue, sulla sua composizione chimica, attraverso la produzione di pensieri e impressioni. Naturalmente “picchi” come questi, seguiti dalla sospensione dei campionati, sono un tutt’uno emotivo. Che, ripeto, potrebbero essere gestiti in maniera diversa per produrre conseguenze diverse. Ma non si fa, non so quanto involontariamente. Ad un tratto, per mezzo dell’induzione mediatica, l’ipnosi emulativa sta scatenando una serie di episodi simili sui nostri campi da gioco. E’ il tentativo di emulazione, come avvenne anni fa con le schiere di lanciatori di sassi dai cavalcavia. Involontarietà, senso di identificazione, ma con il cinismo tipico dei nostri tempi e della nostra società. Protagonismo. La cosa bizzarra è che l’accorpamento avviene per “categorie”, in una aberrazione sociale di identificazione del gruppo a cui si desidera appartenere, in questo caso i “calciatori”. Morosini oltre che una persona sfortunata già in vita, basti pensare alla sua storia familiare, era e rimarrà per sempre ‘un calciatore’. Come era prevedibile, questa pausa di riflessione è servita solo per cercare un colpevole (i ritmi imposti dalla tivù, l’atletismo del calcio di oggi, ovviamente gli immancabili ‘ritardi nei soccorsi’, eccetera), non per trovare un senso. Di sicuro tutti questi giornalisti collegati dai posti più diversi che con faccia di circostanza sostengono che la morte sia una brutta cosa, specie se rapportata alla persona (come se i ‘buoni’ fossero immortali), non aiutano.
Anna Laura, 15 aprile 2012

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