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A chi importa di Cilic

Stefano Olivari 10/09/2014

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La vittoria di Marin Cilic agli US Open ci ha procurato un enorme dolore, non solo per la evidente mediocrità (ad alto livello) del tennista croato ma perché nel tennis sta avvenendo un ricambio generazionale mai visto prima. Nel senso che la cosiddetta nuova generazione ha in pratica la stessa età o pochissimi anni di differenza con quella che sta (starebbe) declinando: Nadal, assente per infortunio a Flushing Meadows ma che ha vinto il primo Slam nel 2005, ha due anni più di Cilic, La stessa differenza che c’è fra i gemelli Djokovic e Murray con l’altro finalista Nishikori. Il 33enne Federer è fuori concorso, in ogni senso: senza la drammatica battaglia con Monfils adesso magari saremmo qui a leggere il solito pezzo statistico copiato da Wikipedia e AtpTour.com. Non stiamo dicendo che Cilic non abbia meritato: il quarto con Berdych, la semifinale con Federer e la stessa finale con Nishikori sono state partite perfette e il tennis, ci piace ricordarlo, è lo sport più onesto del mondo al netto del doping (che vale per tutti, non solo per Cilic che è stato squalificato). Stiamo dicendo che non è un grande segnale che questa impresa sia stata compiuta da uno che mai in un Masters 1000 è andato oltre i quarti e che negli Slam solo una volta era approdato alle semifinali (quasi 5 anni fa a Melbourne). Sono argomentazioni che, rinunciando al nazionalismo, avremmo potuto tranquillamente fare per Francesca Schiavone al Roland Garros 2010. Senza andare alla preistoria, pensiamo anche a Thomas Johansson agli Australian Open 2002… Sono momenti magici, che uniti alla crisi o alla semplice flessione (nessuno dei Fab Four è finito, anzi) dei campioni veri, inquinano gli albi d’oro dei grandi tornei. Insomma, al di là del fatto che non amiamo il gioco pim-pum-pam di Cilic, è una vittoria che fa male al tennis sia in termini storici che di diffusione del gioco. Quando sei abituato a Senna-Prost puoi esaltarti per l’emergere di uno Schumacher, ma non per JJ Letho o Brundle.

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