Il mio tennis, lavorare con Riccardo Piatti

13 Luglio 2022 di Stefano Olivari

Siamo in crisi di astinenza da tennis, con tutto il rispetto per Newport e Båstad su cui comunque stiamo scommettendo, quindi pubblichiamo una recensione che avevamo in canna da settimane, riguardante Il mio tennis, il libro che Riccardo Piatti ha scritto (con Federico Ferrero) sulla sua carriera e sui suoi metodi di allenamento ed uscito lo scorso ottobre per Rizzoli. Significativa la prefazione di Maria Sharapova, che con il coach comasco ha lavorato poco, essendo ormai fisicamente a fine corsa, ma che lo ha molto apprezzato anche dal punto di vista umano.

Piatti non ha bisogno di presentazioni e sul suo recente divorzio da Jannik Sinner, avvenuto qualche mese dopo l’uscita del libro, è stato scritto ormai tutto. Ribadiamo il nostro pensiero: Piatti è il tipo di allenatore che porta un tennista con voglia di applicarsi da 0 a 90, ma non da 90 a 100. Certo un pensiero di bar, se a suo tempo Piatti non avesse scelto di continuare il lavoro con Ivan Ljubicic, portato al numero 3 ATP, invece di puntare tutto su un diciassettenne Djokovic: storia che nel libro è raccontata con lucidità, senza l’amarezza che Piatti ha per altre situazioni come la fredda chiusura del rapporto con Raonic, portato alla finale di Wimbledon, e quella quasi straziante con un Gasquet riportato in alto.

Ma al di là dei tanti campioni che Piatti ha avuto per le mani, la parte più emozionante del libro è quella riguardanti i famosi Piatti Boys di inizio anni Novanta e le tante difficoltà per farli emergere. Caratti, Furlan, Brandi, Mordegan: ragazzi che la federazione aveva lasciato al loro destino e che anche Piatti avrebbe avuto convenienza a mollare. Invece da lì nacque una storia di giocatori che non avrebbero vinto Slam ma che sarebbero tutti diventati buoni professionisti sfruttando il 100% del proprio talento, cosa che non si può dire di tutti. Piatti rievoca con affetto i periodi finanziariamente difficili e fa anche autocritica, ammettendo di essere cresciuto con loro e quasi scusandosi di non essere il coach di adesso.

Il metodo Piatti non si può sintetizzare, perché come per tutti i coach il metodo coincide con il coach stesso, ma lui prova lo stesso a farlo. Secondo Piatti il successo nel tennis, quando si affrontano due giocatori preparati bene, dipende al 70% dall’atteggiamento e non dall’esecuzione pulita di un colpo: il suo primo insegnamento riguarda quindi come lo stare in campo e come porsi rispetto alla partita. Solo con l’atteggiamento giusto si più poi parlare di tattica, di colpi, di punti deboli dell’avversario, eccetera.

Una parte importante riguarda il rapporto con il giocatore: il suo obbiettivo è renderlo indipendente dall’allenatore, quindi da Piatti stesso, sia tennisticamente sia umanamente. Piatti non crede nel coach-balia, che sia 365 giorni all’anno in viaggio con un singolo giocatore. In questo lui è diverso dalla maggior parte dei colleghi, una filosofia che poi come si è visto con Sinner può portare ad un divorzio ma che ha il pregio di non creare automi. Un’altra cosa che prova ad insegnare ai suoi giocatori è quella di giocare con il punteggio, cioè ad effettuare scelte coerenti con la situazione del momento e non solo con il proprio tennis preferito (lo diciamo: vorremmo che Camila Giorgi fosse allenata da lui).

In sintesi un buon libro, consigliabile agli aspiranti genitori di campioni, scritto da un allenatore che non vuole fare il guru multidisciplinare ma che anzi difende quello che chiama ‘monopensiero’. Per Riccardo Piatti, al di là della famiglia che comunque è stata creata per merito del tennis (la moglie Gaia faceva la giudice di linea), esiste soltanto il tennis e questo i suoi giocatori lo devono accettare. Non c’è dubbio che gli manchi uno Slam e che questo Slam fosse convinto di poterlo vincere con Sinner, ma alla fine Piatti avrà vinto lo stesso. Il metaforico padre che rende il figlio indipendente sarà orgoglioso dei suoi successi, senza bisogno di rivendicarli.

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