Guida sentimentale 2010

8 Maggio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Giro d’Italia numero centouno, ladies and gentlemen, di sabadì nelle vie di Amsterdam; a celebrare una delle poche manifestazioni pop che abbiano veramente creato un immaginario italiano.
La partenza, in una città che ha fatto della cultura della bicicletta il proprio credo laico, sarà bellissima: Museumplein, la piazza dove si celebra il genio eterno di Van Gogh e il fascino luciferino dei diamanti, è il luogo ideale dove festeggiare. Poco distante, il Consolato americano ci ricorderà la prossima impresa omerica; ovvero la corsa rosa a Washington in Obamaland. Il Giro 2010 parte con alcune certezze inscalfibili: non sarà peggio dell’edizione disastrosa del centenario, disegnata e ideata malissimo; il cui de profundis fu decretato anche dagli ascolti televisivi, i più bassi nell’era (sciagurata) dell’Auditel. Disegnata dal buon Zomegnan con il santino in tasca della Lehman, alla caccia di sghei ovunque: il ratto della cosiddetta Cuneo-Pinerolo, per esempio, fu deciso in virtù di un facoltoso privato che, avendo pecunia a volontà e lo sghiribizzo (estroso) per il ciclismo, strappò l’assegno giusto per la Rcs.
Quest’anno finalmente, dopo una corsetta monca dei Monti Pallidi in dolomia, si è tornati a un regime “alimentare” stile Novanta:
salite a go go, soprattutto nell’ultima settimana, e forse si è pure esagerato nel quantitativo. Almeno Plan de Corones ce lo saremmo risparmiati, così come l’overdose di trasferimenti, spossanti per gli atleti ed il seguito (avete presente gli orari dei meccanici?); ma appare evidente che la salute dei corridori interessi solamente in relazione alla nostra coscienza, parecchio più sporca di quella dei partecipanti ad un Grande Tour qualsiasi. A proposito, il cast (rispetto agli sfarzi texani dell’anno scorso) risente della crisi nel settore specifico (tranne le eccezioni che indicheremo) e quelli che contano veramente (il torero e Schleckino) si preparano per la Fete du Juliet: lo scenario italiano è da austerity profonda, tolto il duo Liquigas siamo ai vecchi lupi di mare (Garzellino e Scarponi) e a sperimentazioni ardite (Pozzovivo, il lucano mignon) o famigliari (il Mascia figlio di Palmiro).
Considerando troppo severo il profilo altimetrico di alcune contese per lo squalo Nibali (ma non avrebbe dovuto preparare il Tour?), rimaniamo con la carta del varesino Ivan Basso. Il figliolo prodigo, dopo il rientro promettente, non sembra con l’agilità giusta per competere ad altissimo livello ma è uno dei due favoriti romantici del nostro lotto: i tre mammasantissima da rosa, quelli che dovrebbero far passare lo straniero, sono Evans, Sastre e Vinokourov; rispettivamente Cappuccetto Rosso, la nonna e il lupo cattivo. Il terrore della Gazzetta è il trionfo dell’ucraino, più duro di un personaggio di Dostoevskij e con la cazzimma giusta per tre settimane che si annunciano tremende; il Carlos maglia gialla 2008 ci sembra, se mantiene lo standard qualitativo, il vero ras del plotone. La squadra e tutte quelle montagne lo confortano; a contrastarlo adeguatamente, oltre all’uomo Astana, la silhouette iridata di Cadello Evani che potrebbe (finalmente) togliersi lo sfizio che il Passo Coe e l’inesperienza negarono nel 2002. Oltre all’energia pulita del campione del mondo, parteggiamo (il tifo no, mai..) per un cadeau glorioso ad un atleta allenato da Aldo Sassi: Evans e Basso appunto, per lenire il dolore e le fiamme gelide della chemioterapia che sta affrontando il preparatore storico della Mapei, un uomo nobile e onesto.
Del resto, vorremmo un Giro senza voli pindarici ma schietto, popolare; stufi degli stereotipi spalmati sulla pelle dei ciclisti, magari da fanatici di orrori psichici protetti dai media.
Siamo disgustati da quell’aria di sufficienza verso nonno ciclismo, che è invece sempre più essenziale per la sopravvivenza epica dello sport: la bici agonistica come le passeggiate infinite di Robert Walser, un gesto che nessuno riuscirà mai a svuotare della sua forza originale. Allora appuntatevi le date con la bellezza selvaggia del Giro: dopo il prologo olandese, la cronosquadre nella Granda cuneese; le strade bianche, che riempiono gli occhi di un paesaggio bucolico e boccaccesco, verso Montalcino. La prima vera randellata del Terminillo e la visita, dovuta, a L’Aquila: tanto per ricordarci che la vita è una salita col vento in faccia. Il profilo di un monte sacro per gli italiani, il Grappa, che annuncia il filotto decisivo della competizione: la Mestre-Monte Zoncolan, da paura, e la triade che eleggerà il rosa shocking. L’arrivo all’Aprica, con il Mortirolo a minacciare i girini superstiti, e quello sul Tonale dopo il calice amaro del Gavia. Infine, a resettare definitivamente la classifica, la breve cronometro di Verona (casa Cunego, chissà se si farà vedere…): il menu è di quelli da indigestione, noi non salteremo nemmeno una portata.
Non per ingordigia, ma perchè (in prima fila durante la tappa giusta) li vedremo scorrere veloci e silenziosi al nostro fianco:
in quel preciso istante ci verrà la solita pelle d’oca, quella dei bambini ingenui, come se ascoltassimo la musica giusta. Per volare alti citeremmo Luigi Nono, ma ci basterebbe l’arpeggio soave di “On every street” dei Dire Straits (la parte finale, of course) per rendere l’idea: un gruppo che non abbiamo nemmeno frequentato, però quell’epilogo di chitarre che si rincorrono gioiose ci hanno sempre scaldato l’anima… Buon Giro a tutti.
Simone Basso
(in esclusica per Indiscreto)

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