Gioia del Colle

31 Maggio 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
Le piantine di Rujano, le persone del ciclismo, gli anni Ottanta dei Mavericks, Riley il motivatore, la rivincita di Nowitzki, il gorilla degli Heat, Bolt sgonfio e l’ultimo giro di Hildebrand.

1. Ci piacerebbe conoscere il pensiero delle marmotte, vere proprietarie del Colle delle Finestre, su quel curioso spettacolo del Giro d’Italia. Siamo al penultimo dì della via crucis e si vede; i corridori hanno la magrezza assurda (questo è sport e le Pavlyuchenkova non sono ammesse) delle immagini sacre di Gesù e pedalano un pò tutti al gancio. Vasil Kiryienka sale con la vittoria addosso: attendiamo, come Giovanni Drogo, il giorno che qualcuno farà capire al bielorusso il suo supertalento. Josè Rujano approccia le curve da scoiattolo; siamo felici di rivedere uno dei Buendìa davanti al gruppo: forse, dopo un lustro viziato da atteggiamenti poco professionali, ha compreso che la fatica da sfregaselle è meno sconcia di quella che provò, adolescente, quando lavorava nelle piantagioni di caffè. 4500 piantine in una giornata lavorativa che cominciava alle sei del mattino; per tre volte fece il record (5300) ma decise che quel trespolo con le ruote era meglio: tre dita del piede destro, incurvate verso l’interno, gli ricorderanno per sempre quella vita tremenda, accucciati per sette ore di fila con il viso verso la terra.
2. Passano Nibali, che è un corridore più da Tour che da Giro, e Gadret, un francese (ci sono ancora..) che preferisce le nostre salite (cattivissime) alle sue, un ciclocrossista che corre come Virenque e che si ispira a Pantani. Staccato dal plotoncino dei grandi arranca, ma con orgoglio, il Tiralongo: col viso antico, la pelle scura bruciata dal sole, ha nel nome un destino, un onore, che è quello del gregario.
Giro durissimo, impietoso in ogni senso dalla discesa del Passo del Bocco in poi; è anche per questo che il panorama degli indiani, sulla cresta del monte, continua a sorprenderci. Quanti eravamo lassù?
Ventimila, trentamila o quarantamila? Nessuno è salito in macchina o in moto, tutti in bici o a piedi.
Tranne qualche esibizionista, inquadrato infelicemente da mamma Rai, il pubblico della corsa rosa e del ciclismo consente ancora di coltivare un’utopia: un mondo senza ggente ma zeppo di persone.
Li abbiamo visti sulle specialissime e in mountain bike, sui velopasseggini (…) e in tandem; meno banali del luogo comune sugli italiani svenduto dai televisionari. Intanto un altro Giro è passato, di certo non invano, e lo consegniamo all’albo d’oro: il Tas e l’Uci, prima o poi, potrebbero anche stravolgerlo. E’ la specialità della cricca, parenti prossimi di Sacher-Masoch. Noi invece ci auguriamo di rivedere il torero Contador alla Grande Boucle contro Schleck, Basso e Evans. Perchè ci interessano solo le pedivelle e i bipedi che le spingono, non quelli che li sfruttano.
“Kandinskij sostiene che il giallo è il colore della vita.
…Adesso si capisce perchè quel colore fa così male agli occhi”.
(E.M. Cioran)

3. Pare ieri ma era il 2006. Due franchigie con una storia relativa, figlie di un’espansione che ha decretato il trionfo commerciale di Sternville. Pensare ai Mavericks significa risalire ai ruggenti Ottanta: un proprietario che incarnava lo stereotipo alla J.R. (Don Carter) e uno squadrone a un gradino dall’empireo. Guidati dal mitico Dick Motta, simulacro dell’allenatore Nba del periodo, ebbero la ventura di affidarsi al talento mefistofelico di due deviati. Il primo, Mark Aguirre, di Chicago come D-Wade, era inarrestabile nei dì giusti. Mani e piedi favolosi, in post e fronte a canestro, un califfo in un evo inarrivabile di ali piccole (Bird, Erving, Bernard King, Marques Johnson, English, Dantley, Wilkes, etc.). Però fu anche Ziggy The Elephant, un All Star con i fianchi e la ciccia di Kirstie Alley e caratterialmente ingestibile. Il puzzle, con i vari Blackman (che a Milano lasciò un ricordo indelebile), Derek Harper, Perkins, sembrò di profilo dinastico con l’aggiunta di Roy Tarpley. Chi ha avuto la pazienza di leggerci da qualche anno, ricorderà l’aneddoto del nostro incontro con la fenomenale ala-pivot, allora all’Aris Salonicco. A Torino, 1993, la mattina di un’orripilante finale di Coppa delle Coppe era davanti a Footlocker, ubriaco, con in mano una bottiglia di birra…Fosse stato meno birba (…) quel ragno di 2 e 10 li avrebbe condotti alla terra promessa; invece l’ex Wolverines fece bingo guadagnandosi una squalifica Nba a vita. Qualche anno dopo l’ultimo tentativo di recupero, ai tempi del primo Kidd, affossò il progetto nascente delle tre j (Jason, Jimmy Jackson, Jamal Mashburn). L’ottantotto fu comunque fenomenale: portarono alla settima, nello showdown occidentale, i Lakers dei mammasantissima. Deja vu, l’ennesimo, fu la marcatura (disperata) di Magic Johnson sul Tarpley strabordante, rivendicata da Pat Riley. Il coach col gel, l’archetipo di Gordon Gekko, la ricordò agli sprovveduti che avevano chiesto le differenze tra il suo play extralarge e gli altri: “John Stockton è bravissimo, ma il cinque avversario in single cover non lo marcherebbe nemmeno in sogno”. Il riferimento, oggi, non vi ricorda qualcuno con la maglia numero sei?
4. La storia del cliente preferito delle boutique di via Montenapoleone si sarebbe incrociata nuovamente con quella di Dallas, diciotto anni dopo. Una finale già vinta dai Mavs, sul più tredici a sei minuti e mezzo dal tre a zero tombale, e consegnata da Nowitzki e soci a un Wade più jordanesco dell’originale e alla classe operaia degli Heat (Posey, Zo, Haslem). Quella rimonta fu rileyana come non mai, un soggetto che ha sempre fatto della ferocia (malgrado le apparenze..) il suo marchio di fabbrica. Rimarrà negli annali, ai tempi dei Knicks, un discorso motivazionale alquanto originale: chiese silenzio ai suoi, prese un secchio pieno di ghiaccio ed acqua e ci immerse la testa per un paio di minuti. Quando riemerse dall’apnea i giocatori erano spaventati ma convinti… I texani nel frattempo erano diventati i Cubans, a immagine e somiglianza del suo (ingombrante) presidente: megamilionario radical-chic, figlio della nuova economia che giustificò la sua passione Mavs con due paroline magiche. “Money and pussy”.
5. Il collasso di quella serie è il prologo a Heatles-Cubans 2011, una contesa prodotta soprattutto dalla stupidità di Danny Ainge. Fino a Capodanno Dallas ci è sembrata l’unica vera alternativa ai Lacustri, poi l’infortunio al ginocchio destro di Caron Butler è sembrato ridimensionarli in maniera definitiva.
Beffardo pensare che proprio contro Miami avrebbero bisogno, nel ruolo di tre, di un puledro del livello dell’ex UConn per impegnare il Prescelto. Carlisle zonerà con intelligenza, confidando nel dinamismo del favoloso Tyson Chandler e di Shawn Matrix. In attacco dovranno alimentare il talento irreale di WunderDirk, servendolo con i tempi giusti e (preferibilmente) in situazione dinamica e profonda. Per dirla tutta, sarà quel metro nel passaggio alle tacche che deciderà le sorti delle Finals.
Il Risiko costruito da Spoelstra attorno al fuoriclasse tedesco è cruciale: nessun combo, tranne forse Chicago, aiuta in difesa con quella velocità e fisicità. I biancorossi vorranno produrre più transizione, necessaria per regalare punti gratis a un collettivo che ha poca fluidità offensiva a metacampo.
Il resto si gioca sull’emotività straordinaria dello scontro: Dallas è la squadra delle rivincite personali.
Terry con Nowitzki per ammazzare il ricordo infausto, Kidd per evitare la galleria dei Grandissimi senza anello; Stojakovic che proverà a seppellire l’indimenticabile (…) airball di gara7 all’Arco Arena (2002). Marion con la prospettiva dell’ultimo pas

so che non gli è mai riuscito nel deserto.
6. Gli altri invece hanno dovuto convivere con King Kong sulla schiena: arrivano con la rabbia e la fame giusta, bastava osservarli nell’ultimo quarto della quinta con la banda Thibodeau. I due dioscuri strapotenti e arroganti, proprio come quelli che vent’anni fa (con l’altra maglia) cominciarono l’ultima vera egemonia dinastica. Bosh, terzo violino, nel suo ruolo perfetto; i camerieri (Jones, Miller, Anthony, Bibby) prontissimi per la mancia promessa in caso di parata a South Beach. Comunque vada, è una questione di tempo per entrambe le duellanti: chi afferrerà quello giusto?
“Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. E’ inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro… Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro l’attesa”.
(Agostino)

7. Due righe sulla Diamond League nella città eterna. Basta l’esca, come richiamo, di un Bolt sgonfio (sic) per chiamare finalmente un po’ di pubblico sugli spalti. Che assiste, ignaro o quasi, alla materializzazione della disciplina più autentica e affascinante. Perchè l’atletica è sexy, bellissima, anche se non tutti gli atleti sono Funmi Jimoh. Rappresentano la meglio gioventù e la biodiversità totale: alti, bassi, magrissimi, muscolari. E’ il mondo senza barriere reali, alla faccia di chi definisce popoli le nazioni benestanti ed etnie quelle poverissime. Nel vedere Andrew Howe sui 200 abbiamo pensato, per l’ennesima volta, allo spreco incredibile di un talento che, bambino, ci parve la reincarnazione di Carl Lewis. E all’idea che con questa monocultura pallonara lo sport italiano potrebbe, tra non molto, diventare terzo mondo.
8. Incredibile. agg. Che è difficile o impossibile da credere; SIN. Inattendibile, inverosimile… 

Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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