Basket
Giganti del basket
Oscar Eleni 06/04/2020
Oscar Eleni isolato dal mondo, ma non dai sogni che ci fanno atterrare fra i girasoli del monte Fuji o dai ciliegi in fiore del maratoneta che si isolò dal mondo per la vergogna dopo essersi ritirato sulle strade svedesi del 1912 dove, forse, erano meno sciocchi di quelli che oggi si sono passati il virus senza chiudere una porta perché era roba da meridionali, tipo gli italiani.
Adesso contano i morti pure loro come noi, illusi, proprio come noi, di uscire migliori da questa pandemia che non fa tacere il bestiario politico generale: dite tutte le bugie che volete, basta che la gente ricordi e ci dia il voto quando le cose torneranno ad essere come prima: viva la pappa col pomodoro, la malavita, la corruzione e vedrete che insabbieranno presto le indagini al Pio Albergo Trivulzio, tornato alla ribalta dopo Mani Pulite, per la gestione pilotata di chi negava le mascherine, negava tutto, licenziava, caso mai. Questa ricerca del peccatore finirà nel Naviglio insieme a quel cane salvato mentre i cigni cercavano di ricordargli che l’acqua, anche sporca, non era il suo territorio.
Nascosti dietro le mascherine obbligatorie, gente acuta che ne sa più di noi le ha imposte dalla domenica delle Palme nella Lombardia che si sente autonoma anche se ogni giorno lamenta di non avere soldi abbastanza da quei mangioni al potere. Non starnutite, state alla larga anche se tutti adesso vorrebbero stare vicini, ma, come dice Veltroni, restiamo comunque porcospini che per un po’ cercano il caldo, ma poi si torna a pungere, rubare.
Prigionieri del burocrate stupido che anche in questa pandemia meriterebbe la colonna infame, ma siamo sicuri che pure lui se la caverà dopo aver magari bloccato le stesse mascherine che il governatur lombosacrale avrebbe voluto distribuire gratuitamente un paio di giorni dopo averle rese obbligatorie per la disperazione dei molti senza protezione e respinti dalle farmacie dove ci sono eroi e taglieggiatori. Come ovunque, come in quell’ospedale dove hanno fermato un infermiere che aveva fatto incetta di tutto quello che la pandemia rende oro al mercato nero.
Tutti sognano di essere migliori dopo questo digiuno di relazioni diciamo pubbliche, di ristoranti alla moda, tutti sanno che la crisi economica ci farà diventare anche più cattivi. Lo teme persino la regina Elisabetta che agli inglesi ha chiesto di restare uniti e calmi, pur sapendo che in molti avevano scelto zucca Johnson. Per questo cerchiamo rifugio nei sogni e nei ricordi, senza dimenticare con chi abbiamo camminato per tanto tempo, lontani dai profeti dei baci al cioccolato, quelli che, ad esempio, sono convinti di aver rifatto società gloriose che mai si erano arrese anche in tempi di carestia.
Una di queste è la solita Milano, l’Olimpia inventata da Bogoncelli, resa grande da Rubini e Casati, poi da Basilio, poi da Cavalli, Gabetti e Cappellari nel regno del nano di Evanston che come la Regina ancora produce, parla, insegna. Proprio in aprile ci sono due date dimenticate sulle gazzette allo squacquerone dove non sono mai scesi dal mondo delle palle col pendolino.
La stessa Milano che si è rasserenata perché Dell’Orco ha confermato l’impegno di Armani facendo ululare chi ancora rinfaccia al compagno di re Giorgio la promessa non mantenuta con l’ultimo allenatore senza chiedersi il perché del divorzio, con pagamento degli alimenti. Le trombe del primo stato, dei sciuri, si domandano se Messina non sia stato fortunato a chiuderla prima che si facessero i conti con troppe cose andate male. Lo è stato di sicuro, anche se per la verità, milione più, milione meno, tirato in ballo da chi ne ha avuti sempre molti più degli altri, il commento al suo anno zero sarebbe stato simile a quello fatto per il predecessore: zero tituli.
Come logico se metà squadra la erediti, a prezzi salati, dal partito Pandora, se l’altra metà si è dimostrata davvero inadatta e scadente, così come il gioco che, come dice il Pedrazzi a cui invidiamo i viaggi nel sito dove Melli e Datome dimostrano che non sono soltanto talenti sul campo, si asfissiava in mano a giocatori incapaci di stare al centro e in post basso, si confondeva con una finta ferocia difensiva messa in piedi da chi ha sempre giocato fottendosene di recuperare un pallone. Questo a Messina lo abbiamo detto dopo tre mesi di sguardo cauto che meritava. Non ci sembra proprio di averlo difeso. Non ne ha mai avuto bisogno, lui come Sacchetti che qualcosa ha pur vinto e fatto. Sanno farlo da soli. Come in carriera ha saputo fare molto spesso, sbagliando anche tanto, il nostro Ettorre che ci ha squalificato spesso, sbagliando. O no? Succede, se rischi una rifondazione.
Non sappiamo se si rialzerà, nessuno sa se ci rialzeremo e con quali stracci addosso, però in molti sono ancora convinti che sia lui l’uomo per poter guardare al passato senza la bava degli invidiosi, onorandolo cercando di salvarne le radici nel vigneto delle nuvole, sia lui il maestro muratore che potrebbe ricostruire avendo trovato ben poco nella dispensa di cortigiani che si credevano padroni della corte, soltanto per averne avuto la fiducia.
Di certo avrebbe onorato la Coppa dei Campioni che la coppia Rubini- Gamba portò al Simmenthal nel glorioso primo aprile al pala Dozza, era la coppa madre: sì, certo, Bradley, Thoren, ma anche Pieri, Riminucci, Vianello, la giovane meraviglia Iellini, Masini, i ragazzi del viavio Gnocchi, Binda e Giando Ongaro. Che squadra, che uomini, che capitano il Pieri mastro di chiavi che abbiamo sempre considerato più importante dell’angelo biondo o degli uomini dal braccio d’oro alla Lombardi anche se dovevamo discuterne felici fino all’alba con i Bonaga, gente di genio e di grande simpatia.
Quel trionfo sullo Slavia di Zidek fece nascere anche i “Giganti del Basket” sulla spinta della famiglia Moratti, sull’idea di Enrico Crespi che oggi ricordiamo addolorati per la morte della dogaressa Nani Mocenigo che capiva lui e comprendeva il nostro ardore, quello di Parodi e di Menichelli.
Era sempre un giorno di Aprile, si era nel 1988, quello che portò alla coppa dei campioni in Belgio, a Gand, la Milano del triplete ereditata da Casalini, dopo aver imparato tante cose dall’ex allenatore della Virtus che Porelli aveva lasciato andare a Milano perché voleva che si riaccendesse la fiamma nella città che non è mai stata Basket City, ma è di certo capitale per un basket che ne avrà sempre bisogno. Fu un capolavoro anche quello. Triangolo magico D’Antoni-Meneghin-McAdoo, ma in maglia Tracer, come ricorda il Pedrazzi nel suo ben vissuto “Scarpette Rosse”, c’erano il cuore di Premier, il talento di Brown, la fede e la qualità di Aldi, Ambrassa, Bargna, Governa, Montecchi e Pittis. Tanta roba. Tanto lavoro. Tanta scuola.
La nostalgia nel silenzio, sperando che davvero Paolo Banchero, Nico Mannion e David Okeke trovino il modo di giocare insieme nella nuova Italia che aspetta giorni migliori. Giorni mai più vissuti dopo Messina, Tanjevic e Recalcati, anche se, dicono, Azzurra era stata affidata al meglio sul mercato e il presidente era convinto che fosse la più forte di sempre. Opinioni smentite dai fatti. Ma a quella gente lì non interessa.