Gasol soft ma senza fare passi

13 Dicembre 2012 di Stefano Olivari

La classifica di Charley Rosen, la visita medica di Sam Bowie e l’insopportabile pressione di Milano.

1. Chi è il giocatore più soft della NBA attuale? Non è soltanto una domanda da bar, perché valutazioni che valgono per la stagione regolare possono essere ribaltate nell’intensità selvaggia dei playoff. Una risposta l’ha data Charley Rosen, conosciuto nel mondo extra Usa come co-autore dei libri di Phil Jackson, ma in realtà autore di tantissime opere sul basket ad ogni livello (che lui ha vissuto anche come allenatore, oltre che come assistente di Jackson ai tempi della CBA) ed innamorato vero del gioco. Rimandiamo alla lettura dell’articolo di Hoopshype per conoscere la sua classifica, che analizzata da un altro continente risente secondo noi troppo del pregiudizio anti-europeo (ma diciamo pure anti-bianco) che molti addetti ai lavori NBA nutrono senza fare niente per dissimularlo. Nei soft più soft a giudizio di Rosen non poteva mancare Andrea Bargnani, fulminato con uno “Shoots like a small forward and rebounds like one”. Di sicuro la poca aggressività, in difesa e nell’attaccare il canestro, gli sta procurando una cattiva fama aggravata dal fatto essere nel mirino da quando nel 2006 è stato scelto come prima chiamata assoluta. Ma ce n’è anche per Casspi (che però non è soft, ma solo adatto a un certo tipo di basket in transizione), Jeremy Lin, Kevin Martin, Amar’e Stoudemire, Antawn Jamison, pur con tutto il rispetto anche per Pau Gasol. La medaglia d’oro del softismo va, secondo Rosen, a Ricky Rubio. Non si parla di metro arbitrale e di rispetto del regolamento (anche di quello edulcorato NBA con i tre passi e mezzo), però.

2. Sam Bowie è stato una grande promessa mancata della pallacanestro, causa infortuni. Una delle tante. Ma la sua definizione mediatica sarà per sempre “Quello che è stato scelto davanti a Michael Jordan“. Accadde nel 1984, in occasione del draft più importante della storia NBA (vi si avvicina, per quantità e qualità, solo quello del 2003 con i vari James, Wade, eccetera), quando i Portland Trail Blazers lo scelsero al numero due, dopo che i Rockets avevano chiamato al numero uno Olajuwon. Si torna a parlare di Bowie per un documentario, Going Big, che dal 20 dicembre ESPNU (ma perché questo canale in Italia non si riesce a vedere per vie regolari?) manderà in onda. Quello che non tutti ricordano è che gli infortuni di Bowie non furono sfiga pura, perché già al college (Kentucky) aveva perso due stagioni intere e nella sua stagione da senior (quella 1983-84, appunto) il suo rendimento era stato di molto inferiore a quello di ‘prima’. Insomma, non è il solito discorso sul draft fatto con il senno di poi, perché in questo caso anche il senno di prima avrebbe sconsigliato una simile scelta. Tanto più ad una franchigia che già era stata scottata dal caso di Bill Walton, che comunque nelle premesse non era un giocatore a rischio. Tornando a Bowie, stando alle anticipazioni la parte più forte del documentario riguarda le visite che gli fecero i Blazers prima di sceglierlo, con lui a minimizzare l’entità del dolore che sentiva per non far sfumare il sogno. Insomma, non ne esce benissimo.

3. L’Armani ha un piede e tre quarti fuori dall’Eurolega, mentre scriviamo queste righe (quando le leggerete magari saranno tutti e due). E quindi via alle analisi praticamente di chiunque (quindi anche nostre), con spiegazioni più o meno condivisibili e nel 90% dei casi basate su un postulato che ascoltiamo da quando abbiamo messo per la prima volta piede al Palalido, quindi dal 1974 e dalla fine dell’era Rubini: la terrificante pressione che mette addosso Milano. Magari fosse così… significherebbe che la pallacanestro interessa a qualche persona in più di quelle che popolano le tribune dei palazzetti (lunedì sera l’ambiente di quello di Pesaro ci ha messo una tristezza che non se ne è ancora andata), creando così quel ‘bar’ perenne che del calcio è la vera fortuna. A proposito di bar e di pressione milanese, un modesto aneddoto personale. Primavera 2010, l’Armani allenata da Piero Bucchi non incanta ma è comunque una squadra solida (e infatti a fine stagione perderà solo in finale, ovviamente con Siena, l’ultima Siena versione McIntyre). Siamo al 4-4-2, bar a caratterizzazione sportiva in via Procaccini (zona corso Sempione). Sui vari schermi scorrono immagini di più discipline, gli avventori sono tutt’altro che calciomani ottusi e hanno un’opinione (da bar, appunto) su tutto, dal Sei Nazioni al Giro d’Italia. Verso le 19 entra trafelato…Bucchi! Ha in mano un foglio di carta e chiede se è possibile fare un fax. Rimane nel locale qualche minuto, il tempo perché tutti squadrino quel ‘nuovo’ appena entrato. Poi esce. Lo riconosciamo in due, noi e l’allora proprietario del locale Alessandro, sulla ventina di presenti. Figuriamoci se fosse entrato in un altro tipo di posto, non diciamo di intellettuali scomodi ma anche solo di persone normali. Ecco, questa è la pressione di Milano. Quella città dove qualche tempo fa l’Armani era costretta a comprare spazi pubblicitari sui giornali per ricordare la data e l’ora della partita ai suoi ‘tifosi’, cosa inimmaginabile a Bologna o a Siena.

Stefano Olivari, giovedì 13 dicembre 2012

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