Due righe che può scrivere chiunque

15 Febbraio 2011 di Roberto Gotta

di Roberto Gotta
Con tante scuse a chi questi discorsi li sente ormai da più di 15 anni, mi ritrovo ora, al termine della trasferta probabilmente più esaltante e più faticosa delle 17 che ho fatto al Super Bowl dal 1988 ad oggi, a riprendere concetti di fine secolo scorso per approfondire quanto emerso nei giorni passati.
Giorni in cui ho trascorso una quantità di tempo insana al computer ma ho prodotto pochissima scrittura ad uso esterno, dedicandomi piuttosto alla trasmissione su Twitter di decine, forse centinaia, di messaggi con e senza fotografie allegate. Che sono piaciuti, pare molto. Il primo punto è questo, e da esso discende tutto il resto: raramente si è trattato di foto “esclusive”, foto cioé che con un’accurata ricerca non sarebbe stato possibile trovare altrove. Ma quel che, credo, ha fatto la differenza non era la loro qualità artistica, spesso invisibile, né la documentazione di momenti rari: era che le avevo fatte io, cioé una persona con nome e cognome precisi, e che alle poche decine di Twitterers (?) che le hanno viste è dunque parso di ricevere qualcosa di prezioso, con un filo diretto tra l’Italia e Dallas. Non ci vuole un artista o un genio a fotografare Tramon Williams con indosso due cappellini uno sopra l’altro, per il freddo, o a riferire per iscritto la scena. Ma quando lo fa una persona fisicamente identificabile l’esperienza neutra diventa esperienza viva, e si trasfigura nella banale verifica del freddo cane che faceva in quei giorni.
E dunque vado ad una quindicina di anni fa, quando il web divenne parte abituale della vita e nacque in molti – specialmente amministratori, direttori editoriali e direttori – l’idea che i giornali, da quel momento in poi, non avrebbero avuto più la necessità di mandare inviati in giro per il mondo,
perché l’informazione era già accessibile via web; e dunque sarebbe arrivata semmai l’era del commento, più che del reportage. Io espressi subito parere contrario a questa mentalità. La mia idea era questa: se la medesima notizia è accessibile a tutti, se non è più importante essere i primi a sapere com’è finita Kansas City-Oakland perché puoi avere le statistiche in tempo reale e leggere il tabellino dieci minuti dopo la fine della partita, se – ci volle qualche anno, però, con l’arrivo del video in streaming – non fa più la differenza avere visto la gara stessa perché la può vedere chiunque, se dunque il fatto in sé (statistiche, tabellini, svolgimento della partita) è accessibile a tutti, diventa non inutile ma ANCORA PIU’ IMPORTANTE avere qualcuno in loco. Perché a parità di informazioni neutre e fredde, la differenza la possono fare l’occhio, la testa, il cervello di chi è lì e coglie una quantità di sfumature che nessuno altro può carpire. Ricordo che tormentai parecchie persone, del tutto disinteressate a questi concetti, proprio su questo punto: nonostante l’esperienza dica diversamente, anche un deficiente, se è ad un avvenimento sportivo, può notare piccole cose che sfuggono a chi è a casa. E allora i media, a mio avviso, avrebbero dovuto accentuare il loro impegno di copertura di un evento: prima, se avevi accesso ad una trasmissione in bassa frequenza (o con una parabole mobile, in epoca di feed non criptati) di una partita invisibile al grande pubblico potevi teoricamente anche startene a casa e scrivevi quel che nessun altro vedeva. Ora, anche Sporting Cristal-José Galvez puoi vederla sul web, e che senso ha fermarsi al risultato o a due righe di commento che potrebbe fare qualsiasi lettore? Perché mai – e succede MOLTO spesso nelle sale stampa degli stadi italiani, anche a causa del dominio delle televisioni sugli altri media – riportare su un giornale le parole di un allenatore ai microfoni di Sky nel dopopartita, quando una percentuale alta di lettori le avrà sentite in diretta?
La mia idea era, e resta, questa: grazie al web i fatti sono noti e dunque diventa PIU’ IMPORTANTE, non inutile, avere una presenza sul posto. Meglio se competente, ovvio. Una presenza che ti porti in casa qualcosa di saggio, di approfondito, semplicemente di diverso. Vivere l’esperienza dal vivo dà solo vantaggi, anche se è costoso e dunque si scontra con le risorse a disposizione dei media, specialmente della carta stampata (che dà poi però 3000 euro ad articolo ai prìncipi della banalità ben scritta, ma questo è altro discorso): dai qualcosa di tuo, di unico al lettore, che la partita l’ha vista come te e forse meglio, avendo a disposizione replay. E’ il motivo per cui, nonostante la crescente noia (sì, noia) di una manifestazione enormemente sopravvalutata, ho continuato ad andare alla Final Four NCAA pur avendo un posto a sedere a decine di metri dal campo e senza monitor per i replay: la partita la vedevo senz’altro peggio di qualunque spettatore italiano, ma ero già lì al giovedì sera, il venerdì mattina seguivo la premiazione del Giocatore dell’anno e potevo parlargli e subito dopo l’allenamento pubblico delle squadre, inutile dal punto di vista tattico ma accessoriato della possibilità di un colloquio con i giocatori; il sabato si poteva parlare con vincitori e sconfitti, la domenica con i finalisti, il lunedì con chiunque, avendo un po’ di pazienza. Ed era quella miscela di dialoghi personali e aneddoti raccolti con le orecchie aperte e gli occhi attenti a fare la differenza, non la partita in sé.
E allora – ma questo concetto lo riprenderò in un altro ragionamento – ecco che avere una persona in loco vuol dire produrre contenuti giornalistici unici, che piacciano o meno,
e sfuggire alla logica dei pezzi-fotocopia che specialmente nelle occasioni delle grandi manifestazioni sportive americane sono atrocemente diffusi, nell’indifferenza di capiredattori e direttori unicamente intenti a non scontentare chi fa i conti e non comprende, totalmente cieco com’è alla qualità, che il risparmio di oggi, il pezzo fatto fare dal ventenne che va in estasi al solo pensiero di poter dire “ho fatto un pezzo sul Super Bowl” (quando si ricorda di scriverlo staccato) in cui generalmente butta dentro tutti i cliché possibili, si traduce nei fenomeni visibili giorno dopo giorno: la disaffezione del lettore meno rozzo, la produzione di articoli tutti uguali, che anche il lettore stesso potrebbe comporre con un po’ di studio, la crescente sicurezza nelle proprie tesi di chi, nell’era moderna, sostiene che ormai a distinguere chi genera informazione e chi la consuma sia solo uno status spesso predeterminato da contratti e privilegi, piuttosto che la messa in pratica, in loco e con i meccanismi razionali giusti, di una competenza maturata nel tempo. La barca affonda, l’orchestrina suona sempre le stesse note, in fotocopia sbiadita.

Roberto Gotta
(per gentile concessione dell’autore, fonte: Vecchio 23)

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