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Murray-Djokovic e il tennis di luxilon

Simone Basso 24/02/2015

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Il circuito del tennis pro, diviso tra i tornei sull’hardcourt e l’argilla rossa sudamericana, punta il cannone sullo zenith della stagione: Wimbledon e Roland Garros innanzitutto. Fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, il cemento (ovvero ciò che precede e segue Parigi e Londra) è il centro di gravità permanente del circo. In effetti, tra plexicushion, o il tappeto colla stile Key Biscayne, e rebound ace maggiorato (Shanghai in primis), il duro detta le gerarchie di Atp e Wta. L’Aussie Open che ha inaugurato il 2015 ha mostrato in toto le tendenze dell’evo contemporaneo. L’epoca dell’omologazione, a tutt’oggi il verbo comune dell’Itf e del sindacato giocatori, si sta modificando. Dopo la finale 2012 degli Australian Open, sei ore di padellate e spostamenti orizzontali, il punto di non ritorno del robotennis, il manto down under è stato velocizzato. Non abbiamo dati certi del lavoro compiuto sulle superfici, ma le Wilson utilizzate – tra Brisbane e Melbourne – implementavano un dinamismo maggiore agli scambi.

La considerazione tecnica più importante di questa (eterna) transizione? Con le condizioni di gioco così, la risposta surclassa qualitativamente il servizio. Perchè chi batte, a dispetto del vantaggio nel riflesso psicomotorio, ha un quarto del campo a disposizione; chi risponde anche i rimanenti tre. I materiali di oggi permettono un impatto della palla, durante la ribattuta, con più angoli e timing. La rivoluzione copernicana, nata concettualmente con Andre Agassi, si è realizzata definitivamente nel ventunesimo secolo: nel cercare l’anticipo, oggi si risponde “pieno”, ieri bloccando… In questa maniera, riducendo la biodiversità tra cemento, erba e terra, tuttofare, attaccanti e fondocampisti, il confronto di stili (che esaltava la trama dei duelli) è ai minimi termini. Il marketing ad personam, ritagliato su misura per il campione di turno, è diventato obbligatorio. Lo scenario si è dunque calcistizzato, coi tifosi, le bandiere, le fidanzate, le posse abbronzate al seguito.
Destino mediatico curioso, per un rito che – una volta – accettava l’autoironia e la maschera delle (buone) convenzioni sociali. Che partivano dall’esigenza del silenzio. L’essenza del tennis, il gioco più alto borghese di tutti, era nel contegno, nel distacco dal tribalismo (cafone) di altri sport. Ora non più.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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