I dischi invenduti di Davis

25 Febbraio 2014 di Stefano Olivari

A proposito di Davis è uno di quei film che dovrebbero essere proiettati nelle scuole, non per il valore artistico ma perché mostra il fallimento nella sua vera essenza: non il ‘perdere’ (Rispetto a cosa, poi? Non tutti sono professionisti dello sport e possono oggettivare i risultati) e nemmeno lo stare male in sé, quanto l’avere rinunciato a scegliere. La storia di Llewyn Davis è quella di quasi tutti noi, insomma, anche di noi che mai abbiamo avuto velleità (e tantomeno talento) artistiche. I fratelli Coen al loro meglio, che concedono poco alla furbizia di sceneggiatura, ci mostrano la New York del 1961 in cui Davis (personaggio di fantasia, ma ispirato a Dave Van Ronk) dopo il suicidio del suo partner artistico si trova a un punto morto della carriera. I suoi dischi di musica folk vanno così così, i soldi scarseggiano, la moglie del suo amico (nella fiction un Justin Timberlake come al solito credibile) è incinta forse di lui. Ci sono anche le esibizioni dal vivo, che gli consentono di scroccare ospitalità ad ammiratori e conoscenti. Ad uno di questi fa perdere il gatto (ma il micio ritroverà autonomamente la strada di casa), nonostante la buona volontà… Davis è insomma quasi un artista da salotto, schiavo di qualsiasi vaga promessa e con i sogni relegati nel passato (la scena in cui si scontrano sotto un tavolino due casse di dischi invenduti, la sua e quella di un altro musicista, è pura genialità). Va a Chicago per un’audizione, con due compagni di viaggio coenianamente sgradevoli: un anziano ed arrogante jazzista (interpretato da John Goodman) tossico e il suo valletto, un silenzioso poeta beat. Li perde entrambi per strada, mentre abbandona di sua volontà il gatto ‘sostituto’ che aveva tentato di piazzare a New York senza riuscirci (solo i grandi hanno le palle per farci tifare contro il protagonista). L’audizione a Chicago non va malissimo, l’impresario (interprete Murray Abraham) non vede potenziale commerciale ma pensa che possa funzionare in un trio. Davis accetta la sconfitta ma non il pareggio, prende e se ne va. Prova a tornare nella marina mercantile, dove il padre (ricoverato e ormai quasi un vegetale, il rapporto irrisolto con il genitore unica concessione alla banalità di Inside Llewin Davis) ha lavorato per una vita, ma per un problema burocratico non può firmare il contratto. Di nuovo tenta con la musica e con l’ambiente del Village (inevitabile l’inquadratura di Washington Square), suonando nel solito Gaslight. Accoglienza tiepida, subito dopo di lui si esibisce un ragazzo che si farà conoscere come Bob Dylan. Tocco da maestri nel riproporre alla fine quasi la stessa scena dell’inizio, con incluso il pestaggio. La vita scorre, ci sono sempre altre opportunità. Ma quando perdi la fiducia, la voglia, il senso, è come se ce ne fossero zero. Non è che tutti possono essere Bob Dylan, come forse direbbe un mental coach, ma chiunque può evitare di trascinarsi.

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